L’aggressività nei servizi comunitari – 1

La vita comunitaria ha proprie regole e necessita di una continua gestione dei comportamenti dei membri che possono essere di nocumento o difformi ai desideri del gruppo di conviventi. Laddove lo stato di convivenza si fa obbligato (per ragioni di patologia/cura, di difesa e protezione dall’esterno, di obbligo giuridico o comunque contrario alla propria scelta), emergono stati di rabbia e sentimenti oppositivi che frequentemente si esprimono in comportamenti aggressivi.
L’educatore di comunità è coinvolto non solo nel dirimere le controversie tra gli ospiti della struttura comunitaria, ma anche nel sanzionare i comportamenti che recano sofferenza o danno agli altri membri.
Gli interventi del primo tipo sono di  carattere giudiziale (l’educatore è chiamato cioè ad esprimere un parere vincolante di definizione su ciò che è giusto), quelli del secondo tipo sono di carattere sanzionatorio. Questa funzione “magistrale” appartiene alla professionalità e richiede capacità di regolazione e di mediazione che l’educatore deve saper implementare in un discorso andro-pedagogico caratterizzato da valori e misure a favore della civile e proficua convivenza dei membri. “Magistrale” diciamo, perché occupandosi delle cose “maggiori” (da maiorem=comparativo di magnus cioè “grande”) è affidato alla cura del “maestro” che, con la sua esperienza di vita e le sue convinzioni personali, aiuta a “trarre fuori” gli elementi importanti (maggiori, appunto!) dai “discenti”, che ne fanno scoperta e, conseguentemente, imparano.
“Fare educazione” si riferisce appunto a questa azione “maieutica”, che non si esime tuttavia dal confronto tra il proprio valore e desiderio con la pressione sociale esercitata dal gruppo stesso.

Il comportamento “aggressivo” è valutato differentemente a seconda dei diversi contesti e situazioni: possiamo definire così sia un comportamento intraprendente ed energico di un venditore insistente, sia l’azione di danneggiamento rivolta verso cose o persone. Gli psicologi intendono con questo termine il solo comportamento verbale o fisico che ha l’intento di creare sofferenza e danni ad altri in modo volontario: questo può essere di tipo “ostile” o di tipo “strumentale”. Il primo è alimentato da rabbia o da sentimenti organizzati di odio, che hanno il fine attaccare l’altro al solo scopo di  procurargli danno (a limite senza beneficio o anche a detrimento di chi perpetra l’azione). Si può definire come aggressività affettiva.
Il secondo è invece orientato a trarre un beneficio personale, per il quale non si lesina in pratiche che possono arrecare dolore o danni ad altri.
Nel primo riconosciamo un comportamento “emotivo”, nel secondo un’azione predisposta e calcolata razionalmente. L’azione educativa ha quindi modalità di intervento differenti a seconda della matrice aggressiva.

Il primo passo da compiere è quindi quello di riconoscere lo “schema” che sottende l’azione aggressiva, leggendone l’orientamento iniziale, in modo da definire diverse possibilità di intervento e trattamento educativo.
L’educatore non è chiamato quindi alla sola azione di giudizio (che dà spiegazione e corregge il comportamento errato), così come non è coinvolto neppure sul solo piano sanzionatorio (che ha la funzione di riequilibrare l’instabilità introdotta dal danno), ma anche in quello di prevenzione, per evidenziare cosa e quali meccanismi innescano i comportamenti aggressivi.

La psicologia ha affrontato la genesi dei meccanismi aggressivi con diverse ipotesi teoriche:
la psicoanalisi ritiene che questi originino dall’impulso autodistruttivo che reindirizza verso l'”altro” la pulsione di morte; l’approccio etologico e della psicologia evolutiva sostengono che l’aggressività abbia invece una funzione adattiva su base istintuale. Questa avrebbe basi genetiche e sede in aree cerebrali che, se elettrostimolate, darebbero variazioni dei livelli di aggressività dei soggetti.
Certamente le influenze biochimiche suscitano una variazione di aggressività: l’alcool in primis è la causa dell’interpretazione delle azioni ambigue come provocazioni, oltre alla capacità di disinibire che anche droghe e sostanze psicotrope possono generare;
i livelli ormonali di testosterone paiono influire sull’agire aggressivo (è dimostrato che bassi livelli di testosterone fanno reagire i soggetti provocati in modo meno aggressivo, ma non è dimostrato il contrario).
Vista da questa prospettiva, si può ritenere che gli uomini siano “programmati” dalla natura per esprimere comportamenti aggressivi.
La conclusione è tuttavia falsa: esistono dei modi per limitare l’aggressività umana.
Su questi dobbiamo operare per ridurre le cause e gli inneschi di aggressività tra i pazienti e gli ospiti delle strutture di contenzione e cura.

Il secondo passo deve quindi entrare in merito agli inneschi di carattere biochimico che possono abbassare le soglie del comportamento aggressivo: se il nostro paziente è sottoposto ad una terapia farmacologica e l’aggressività pare essere frequente e strutturata, andrà certamente indagato se esiste una correlazione con il medicinale. Ad esempio: la somministrazione di acido valproico per il controllo delle crisi di comizialità in soggetti epilettici innesca frequentemente maggiore aggressività.
Altri farmaci con azione psicotropa (neurolettici maggiori) possono avere effetti collaterali che innalzano la reattività dell’individuo pur agendo normalmente come inibitori.
Verificare che l’alcool e i superalcolici non siano parte della dieta abituale dei pazienti, così come la dipendenza da farmaci, è certamente una operazione scontata che ogni operatore impegnato nei servizi di comunità deve eseguire.
Verrebbe quindi da concludere che vino e superalcolici debbano essere banditi dalle strutture, così come debba venire limitato l’utilizzo di sostanze che incrementano l’irritabilità  o limitano il sonno (come il caffè e certi tipi di cioccolato). La Direzione  può certo operare politiche per la propria struttura e regolamentare il possesso e l’utilizzo di queste sostanze. Su ciò non è possibile sindacare! L’operatore tuttavia non deve essere sprovveduto: un divieto si può sempre aggirare, il consumo può avvenire in modo occulto. Gli effetti che si notano nel comportamento devono suscitare il sospetto che una variazione di aggressività possa essere determinata da un cambiamento di abitudini alimentari, di uso di sostanze (sia per incremento che per diminuzione – effetti di dipendenza e crisi di astinenza), di variazione dei ritmi di sonno-veglia. Ecco perché è sempre necessario riportare in un Diario di Eventi significativi le variazioni di abitudini, comportamenti, terapie e gli episodi esterni che possono influire sulla modulazione del comportamento dei pazienti.

La teoria della frustrazione-aggressività ci introduce ad un ulteriore passo da compiere….

 

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