Educare al Bene e nel bene

Perchè il male trionfi
é sufficiente che i buoni rinuncino ad agire.
(Edmond Burke)

La dicotomia “giusto-sbagliato” è il tema attorno a cui ruota la formazione etica che ogni educatore è tenuto a fornire alle persone di cui è caregiver. Il lavoro educativo sul “valore” ha la finalità di offrire un sistema di “puntamento” (un GPS, direbbero i più tecnologici) capace di orientare sulla “mappa” della vita.
Chiariamo anzitutto che il “valore” è necessario per ognuno: senza, l’individuo sarebbe in balia degli eventi e incapace di operare scelte sensate. Per il “buon sviluppo” è quindi necessario che il valore aiuti e orienti ciascuno nella difficile arte del vivere, e del farlo al meglio. Diremmo “bene”.

Ma per cogliere ciò che è Bene (e, avversativamente, ciò che non lo è) occorre un sistema capace di discriminare tra il “giusto” e lo “sbagliato”, secondo i criteri di una scala valoriale propria e il confronto con quella “sociale”, che fa degli individui cittadini corretti e positivamente funzionali al “bene comune”.
L’auto-referenzialità, tendenzialmente sanzionata  negli elementi che si differenziano eccessivamente dalle aspettative dei gruppi e dalla società più in generale, può generare “false credenze” sul nostro funzionamento, rivelandosi a volte incapace di attribuzioni personali in contrasto con una figura positivamente integrata e sociale.

Hannah Arendt, storica e filosofa di origini ebraiche che ha vissuto lo sterminio del popolo di Israele nel delirio nazista, analizza il male nella sua tragica banalità. Il popolo tedesco, quotidianamente e lentamente acquiescente ad un’ideologia che disumanizzava l’ebreo e il diverso, rinuncia a sentirsi complice di un genocidio, rinunciando sia al senso critico che al valore della vita. La “banalità” sta nell’agire attraverso individui  assolutamente “normali”, incapaci di descriversi come efferati, capaci di una quotidianità in cui l’orrore si fa “normale”, a tratti doveroso, assolutamente giustificabile, incriticabile.
La riflessione si svolge a partire dal resoconto sul processo  Eichmann, che la Arendt scrive per una testata giornalistica statunitense.
Ufficiale nazista, responsabile degli arresti e della deportazione di  5 milioni di ebrei, Adolf Eichmann operò con spietatezza ed efficienza per la “soluzione finale”. Impersonificazione del male, risultò assolutamente normale alle perizie psichiatriche e non particolarmente orientato alla malvagità.
Si direbbe un soggetto nella media, preso in sé. Eppure fu l’organizzatore di uno dei più grandi stermini nella storia dell’umanità (le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki provocarono circa 250 mila morti; Eichmann organizzò l’assassinio di 20 volte i morti giapponesi).

C’è da chiedersi se non si possa dire di lui che fu costituzionalmente, “personologicamente” crudele.

Gli studi sociopsicologici, guidati da Stanley Milgram a Phil Zimbardo, hanno posto l’accento sul fatto che le azioni di un uomo possano rivelarsi efferate, al di là delle sue proprie caratteristiche di personalità, se posto in circostanze insolite ed estreme.
Come a dire: il male ha un proprio quid che si situa più nella situazione che nella disposizione.
Nella psicologia del male, vi sono più influenze di tipo situazionale (cioè dipendenti dal contesto, dall’ambiente, dai ruoli e dalle aspettative sociali), più che di peculiarità del soggetto (di come cioè questi sia “disposto” per carattere personale).
Il male non è quindi “straordinario”, ma banalmente e tristemente “ordinario”.

La valutazione sul nostro proprio comportamento ci definisce spesso “immuni” dalla malvagità, incapaci di ferocia, diversi da ciò che le notizie riportano stupite nella cronaca del disinteresse di passanti, spettatori casuali, indifferenti alle richieste di aiuto di altri sconosciuti.
Ci crediamo “disposizionalmente” migliori.
Eppure gli esperimenti della Prigione di Stanford e quelli di Milgram dimostrano in modo sconvolgente quanto le persone possano orientarsi al male in base al contesto: chiunque può attivare condotte estremamente malvagie  in particolari condizioni.

Come avviene questo? Attraverso quali meccanismi?
Come è possibile educare alla resistenza ai “contesti orientati al male”?

Per andare avanti, dobbiamo prima fare qualche passo indietro.

La maggioranza delle persone ritengono in genere di essere al di sopra della media per qualità positive e socialmente desiderabili, quali simpatia, disposizione verso l’altro, onestà e generosità.
Ci si riferisce ad un campione che si trova in condizioni peggiori (non si tratta di disonestà intellettuale, quanto piuttosto di una forma di “sopravvalutazione di sé” in funzione difensiva).
Questo dà l’illusoria sensazione di sentirsi meno esposti verso gli eventi spiacevoli della vita (una forma di “rassicurazione”), che tuttavia rischia di farci esporre maggiormente verso situazioni che si ritiene di poter ben controllare (guidati da “automatismi” basati sul nostro “sentirci immuni“). Se infatti sono consapevole che esiste una fune che mi lega saldamente, sarò più propenso a camminare su crinali e precipizi. Occorre quindi essere consapevoli e vigilare.

Milgram studiò il caso Eichmann, ipotizzando che il suo agire non fosse dipendente dall’essere un individuo aberrante, quanto di aver aderito ciecamente all’autorità: questo il fattore “situazionale” capace di scatenare la crudeltà dell’ufficiale nazista.
Sospendiamo ora il giudizio “morale” sulla persona, per indagare i meccanismi della psicologia sociale del male.
L’esperimento di Milgram (credo sia noto ai più) portò a dimostrare l’influenza dell’autorità sulla de-responsabilizzazione nel comportamento a-compassionevole di soggetti che dovevano infliggere una scossa ad un allievo (ogni volta che questi non rispondeva in modo corretto ad un’associazione di coppie di parole).
Per chi non abbia conoscenza di ciò rimando a questo video.

L’esperimento di psicologia sociale ci offre una importante visuale “a latere” per spiegare cosa spinga gli uomini normali a comportarsi in modo crudele: l’attenzione va spostata sui modelli di integrazione sociale e sulle peculiarità della situazione in cui il soggetto è immerso.

Eichmann firmò la deportazione di individui a lui sconosciuti: non fu l’esecutore materiale degli omicidi, ma un passacarte di ordini capaci di causare sofferenza e morte senza doversi misurare direttamente con i destinatari. Egli fu sostanzialmente distante dalle sue vittime (senza entrare in contatto con la tangibilità della sofferenza).
Come educatori dobbiamo quindi riflettere su questo primo punto: la distanza del soggetto crea una barriera impermeabile al dolore e rischia di spingere a non lasciarsi implicare emotivamente dal soggetto.
Come operatori sociali tuttavia si è obbligati a fornire assistenza ed aiuto, non solo per un aspetto deontologico o etico, ma per imprescindibile richiesta del ruolo. L’atteggiamento verso l’assistito potrà quindi essere improntata ad una forte reificazione del soggetto: questi verrà trattato come un “oggetto” evitando l’incontro emozionale e il coinvolgimento empatico. La relazione sarà quindi meno traumatica per l’operatore, ma svuotata del significato che l’incontro dell’altro deve creare. Il soggetto disturbante, grave, spiacevole si vedrà esposto probabilmente ad un trattamento corretto (magari), ma “disumanizzato” (nell’indifferenza), quando non addirittura “biasimato e colpevolizzato”. Questa è la via principale per la quale si giustificano i soprusi che tanto ci scandalizzano quando entrano nelle cronache (ricordiamo le tre maestre dell’asilo nido piemontese che maltrattavano con percosse  i bimbi a loro affidati). Com’è possibile che avvenga?

L’attività educativa veniva svolta in uno “stato di sospensione dell’emotività” (cfr. Spitz e l’accudimento oggettivizzante attuato nelle nurseries). Se ciò può avvenire con i bimbi, come si può credere che non si possa incorrere in modalità analoghe con soggetti gravi, difficili o depauperanti?

Nell’educazione questa “soluzione errata” (così definita da Morelli e Cannao) è detta soluzione evitamento-oggettualizzazione e riconosce la forza della situazione rispetto alla predisposizione personale.
Non occorre essere dei “mostri senza cuore”, è sufficiente essere esasperati dalla difficile situazione o dall’atmosfera del contesto lavorativo per cedere ad una condotta riprovevole o violenta.

La prima indicazione per educare al Bene e nel bene è dunque chiara: occorre vigilare sugli elementi della situazione e su tutto ciò che genera burnout nell’operatore. Rimuovere gli eventuali ostacoli rappresentati da una situazione di fatica continua e di demotivazione professionale è la prima preoccupazione che l’organizzazione deve avere sul suo staff.  Tuttavia non può essere soddisfacente riporre nella sola organizzazione le ragioni di ciò che innesca la reificazione  (il caso Eichmann ci avverte di quanto la tentazione di assolversi invocando la cieca ubbidienza agli ordini superiori sia forte e illusoria linea auto-difensiva).

RICONOSCERE SEMPRE VALORE ALLA PERSONA, che ci si pone innanzi, è un buon antidoto a questa soluzione operativa errata

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