La deontologia – dal concetto di “protezione” a quello di “promozione”

La deontologia professionale si sostanzia di un sistema etico professionale che non può dipendere dall’esperienza soggettiva o da una scala valoriale individuale. Si tratta piuttosto di un imperativo, che determina la correttezza di un comportamento e un modo di procedere sotteso ad impedire di ledere la dignità o la salute di chi sia oggetto dell’intervento professionale.
Questo è un dato oggettivo….e verificabile.
L’effetto di singole morali autoreferenziali è stato quello di  produrre auto-giustificazioni per un lavoro sociale di scarsa qualità  e di copertura del dolo.
“Di buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno”, recita un adagio popolare, ricordandoci che non è solo l’intento di fare bene ciò che importa, ma pure il fare bene.

Occorre pertanto fermarsi a ragionare un poco sul tema: non possiamo essere indifferenti alle implicazioni morali dell’agire professionale, soprattutto quando questo è orientato socialmente.

Non a caso, le varie discipline lavorative hanno elaborato un proprio codice, con la precipua funzione di governare le azioni professionali.
Il codice non è un protocollo operativo standard al quale attenersi, piuttosto una linea guida capace di orientare l’azione: un “atteggiamento” che può essere valutato per comprendere e spiegare il “comportamento”.

Ogni individuo sviluppa quindi criteri-guida che gli permettono lo sviluppo morale; ogni operatore deve assumere norme di morale professionale che “guidino” l’agire secondo regole condivise e condivisibili.

L’acquisizione di una norma morale comprende tre dimensioni fondamentali secondo Brown:

1. è significato affettivo-emotivo: nella misura in cui la norma contiene anche indicazioni su come l’individuo dovrebbe sentirsi nei casi in cui la rispetta (orgoglio, autostima) o la vìola (colpa, vergogna, paura..). Per la Psicoanalisi, il Super-Io (ovvero la coscienza) interiorizza le norme e i divieti parentali, con la funzione di controllare la carica amorale;
2. è guida per la condotta: cioè la norma prescrive comportamenti desiderabili e ne sanziona altri (vedi il meccanismo del rinforzo sociale di Bandura);
3. è conoscenza della norma: perché rende possibile la comprensione dei suoi significati espliciti o impliciti.

Il ragionamento morale è stato studiato particolarmente da Piaget e Kohlberg, come acquisizione dello stesso piuttosto che per il contenuto di norme o di azioni (privilegiando quindi il ruolo della cognizione nel meccanismo di sviluppo morale dell’individuo). Il livello cognitivo è quindi una condizione necessaria, ma non certo sufficiente per l’agire reale.

Secondo Piaget nei primi 3-4 anni di vita i bambini non comprendono il significato delle regole (è lo stadio premorale, caratterizzato da anomia).
Solo successivamente si organizzano 2 forme di moralità:
1) fino agli 8 anni prevale il realismo morale, tipico del periodo preoperatorio e caratterizzato da un punto di vista egocentrico: i giudizi sono formulati in base al danno reale e oggettivo piuttosto che l’intenzionalità di chi compie l’azione (è più grave rompere 4 bicchieri involontariamente che 1 solo trasgredendo). Le conseguenze delle azioni (responsabilità oggettiva) sono più importanti delle intenzioni di chi le compie (responsabilità soggettiva). E’ quindi l’autorità che legittima il rispetto delle norme (non il senso che le stesse hanno).
2) dopo gli 8 anni si sviluppa la fase del relativismo morale (morale autonoma) caratterizzato da una concezione meno rigida delle regole, concepite come frutto di un accordo e quindi modificabili. E’ più importante la responsabilità soggettiva di quella oggettiva, il benessere degli altri rispetto all’autorità.

Va rilevato che, nell’editare ed applicare un Codice deontologico professionale alcuni vedono un sistema di “protezione” che assicuri di non rendere censurabile o imputabile un proprio comportamento sotto il profilo della negligenza o dell’arrecare un danno: prevale quindi in questo modo di interpretare  la responsabilità oggettiva. Si tratta di una “forma assicurativa” che, al di là dell’importante ruolo che l’azione assume verso coloro che si affidano al professionista, si limita a “difendere” l’azione da eventuali effetti collaterali indesiderati: ciò non renderà responsabile “soggettivamente” l’operatore di effetti dannosi, se la procedura adottata e le modalità si rispecchiano nel Codice professionale. Come dire che basta il rispetto delle regole per non essere responsabile.

Voglio dissentire.
Dobbiamo convenire che la prima preoccupazione di un “dover essere” (“deontologia” – dal greco Δέω ων οντος) è quella di poter “orientare”, creando un atteggiamento che, rispettoso delle regole, sia previdente sul piano degli effetti.

Il tema era già sentito nella Classicità se il Giuramento antico di Ippocrate, poteva recitare:
“In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati, e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario, e fra l’altro da ogni azione corruttrice sul corpo delle donne e degli uomini, liberi e schiavi”

ripreso dalla versione moderna del Giuramento dell’Ordine dei Medici…
“di perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale, ogni mio atto professionale”

Il giuramento è impegno profondo di non fare della propria “condizione di superiorità” (determinata dal conoscere e praticare come si “cura”) un elemento per trarne un vantaggio personale indebito.

Nella professione assistenziale ed educativa, questo si deve tradurre in un chiaro vincolo di azione al servizio di chi a noi si affida, soprattutto se questi è incapace di valutare e di intendere correttamente la relazione (un po’ come un ammalato è rispetto alle conoscenze sulle possibili cure).
La relazione, il “prendersi cura”, è l’elemento più importante per l’aiuto di soggetti che, per loro natura, dipendono dal professionista anche nel “decidere” ciò che per loro stessi sia meglio. Ed è la relazione che dà all’operatore quel necessario “vantaggio” (non più sotto il solo profilo del “sapere”, ma anche dell’ “essere”) da utilizzare con coscienza etica per orientare, progettare e sostenere le azioni assistenziali-educative e pro-sociali.

Vero è che, nella pratica comune di prendere su di sé l’altro, si può facilmente rischiare di “ripiegare” su altre priorità…attraversando vie lastricate da ottime intenzioni. Occorre vigilare: non è sempre facile riuscire a districarsi tra il meglio e l’ottimo, quando poi addirittura non ci si impantana nel campo del dolo (è il caso del disimpegno morale) che dimensiona soggettivamente il concetto di giustizia.

Per Piaget si hanno 2 concetti di giustizia: retributiva e distributiva.
La prima proporziona i meriti ai vantaggi e quindi le trasgressioni alle relative punizioni; la seconda esprime la necessità di eguaglianza che deve essere riconosciuta tra individui- ed è quindi soggetta ad una valutazione morale autonoma.
Non si tratta solamente del principio di salvaguardia delle regole:
le regole convenzionali differiscono da quelle morali (anche se entrambe sono importanti nello sviluppo della competenza sociale) perché dipendono dalle consuetudini dei propri gruppi di riferimento, mentre quelle morali sono interiorizzate e rispettate per il significato che rivestono. I bambini di 4 anni riescono a distinguere tra moralità e convenzioni e considerano le trasgressioni morali più gravi.

La deontologia è quindi una “raccolta”  di regole morali, attinenti alla professione, che indirizzano e guidano le azioni dell’operatore, prescrivendo importanza della responsabilità soggettiva, in un concetto di giustizia che non può essere che distributiva.
Non si tratta quindi di sanzionare o premiare, quanto piuttosto di “operare bene e in rette intenzioni”.

Mi faccio suggestionare dal film di Almodovar “Parla con lei”.
Un infermiere assiste una ragazza in coma. La “vicinanza operativa”, dovuta al rapporto di cura, si trasforma lentamente in una “vicinanza affettiva”. L’infermiere tratta la sua paziente come se fosse cosciente: le racconta tutto, vita quotidiana, pensieri, spettacoli. Il racconto si fa via via più intimo e dalla “cura”, si scivola verso un trasporto che si fa sempre più intimo. Se questo sia orientato da vero affetto (o solo da libido) non è facile da intuire. Il caso può sembra re effettivamente mosso dalle migliori intenzioni, ma resta il fatto che la paziente non è nelle condizioni di cogliere esattamente ciò che la coinvolge e il senso degli eventi. Il caso viene scoperto dopo qualche tempo (la ragazza rimane incinta) e l’infermiere verrà accusato di violenza e quindi sarà incarcerato.
In seguito alla gravidanza la ragazza riprenderà a vivere, ma resteranno i pesanti segni di questa vicenda in cui è stata suo malgrado coinvolta. L’infermiere termina in modo drammatico la propria vita, senza sapere che la paziente si è risvegliata dal coma.

Indipendentemente da quale sia il motore della vicenda (se si tratti di “dedizione professionale” spinta oltre il limite, o dell'”approfittare” di un soggetto incapace di intendere), le domande che il film suscita interpellano prepotentemente.
Ognuno concorderebbe su una valutazione negativa del fatto, ma vien da chiedersi come questo sia stato possibile (come cioè un operatore possa scivolare dai riferimenti morali che vincolano il suo ruolo professionale mantenendo la convinzione di “essere nel giusto”).

Solo un disimpegno morale può spiegare quanto è avvenuto: su questo tema occorre sempre vigilare!

Le interazioni con gli adulti permettono ai bambini di acquisire questi processi di disimpegno, che consentono di porre in atto trasgressioni di regole ritenute valide senza sentirsi in colpa (la psicologia sociale li definisce come meccanismi di disattivazione del controllo interno o della censura interna). Degli 8 meccanismi di disimpegno morale individuati da Bandura, alcuni operano attraverso una ridefinizione della portata trasgressiva dell’azione, altri sugli esiti delle azioni, altri ancora verso il ruolo della vittima dell’azione trasgressiva.

In polemica con Kolhberg (che reputa l’azione morale conseguenza della valutazione degli atti come giusto o sbagliato), Bandura sostiene vi sia una differenza tra il riconoscere quale condotta sia corretta e mettere in atto comportamenti corretti: il disimpegno morale spiega quindi la distanza tra pensiero morale e agire morale.

Gli effetti sono pericolosi: vi è sempre una “scusa” per disimpegnare se stessi e attribuire le responsabilità agli altri, ai superiori, al sistema e al mondo intero…
L’operatore sociale ha la maggiore responsabilità di lavorare con le persone e sulle persone: il tema etico non può quindi essere marginale o cavilloso.

Occorre parlarne e approfondire.
Con ANEP condivido che “la nostra professione ci pone più volte e quotidianamente in contatto con situazioni-limite, al confine fra legalità e supporto alle persone in difficoltà,in cui solo una saldezza di principi e valori, una forte adesione all’etica professionale nonché una formazione di base specifica e adeguata, possono impedire che nella relazione educativa con persone fragili e/o svantaggiate si possa scivolare in casi di abuso, manipolazione o maltrattamento. Se pensiamo al difficile lavoro che svolgono gli educatori nelle comunità per minori o con le persone dipendenti da sostanze o con le persone immigrate magari senza permesso di soggiorno o ancora all’interno delle carceri…ci rendiamo conto di quanto sottile sia il confine fra azione socio-educativa e responsabilità legali e civili” (da “IL CODICE DEONTOLOGICO ANEP PER GLI EDUCATORI PROFESSIONALI – Articolo per AUTONOMIE LOCALI E SERVIZI SOCIALI di Paola Nicoletta Scarpa e Alessandro Trombini)

….ma vi devo aggiungere  e riconoscere primazia, prima ancora che a quella legale e civile, alla RESPONSABILITÀ verso l’uomo.
Occorre un’evoluzione…dal concetto di “protezione” a quello di “promozione”…per una qualità che si fa  VITA.

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