Effetto spotlight nell’anamnesi personale

Il Sistema Identitario, che ogni individuo sviluppa crescendo, stabilisce una serie di risposte all’interrogativo “chi sono io?“.
Queste fondano gli elementi che caratterizzano quello che si potrebbe definire semplificando il “concetto di Sé“.
V’è da credere che, più che un concetto (generale e unitario), ci si trovi in presenza di un quadro poliedrico e cromaticamente vario, capace di descriverci in modo più o meno accurato e di caratterizzarci come persona “unica e speciale”.
La funzione di collante offerta dal Sé permette all’individuo di riconoscersi in una matrice organizzativa ed integrativa, che genera continuità nella propria biografia e negli stati emotivi-affettivi che gli appartengono. Una buona definizione di identità ha quindi anzitutto il vantaggio di fare sentire la persona un “tutt’uno”,  pur nelle proprie discontinuità e nelle ambivalenze “del sentire e dell’operare”.
Un Sé frammentato e discontinuo non potrà che generare patologie importanti e incapacità di interpretare correttamente le “ragioni” del sé e dell’altro da sé.
Nel lavoro educativo è necessario esplorare il concetto di Sè del cliente, sia per le implicazioni teoriche, sia per quelle più pratiche del lavoro di progettazione. Nella storia di ognuno stanno iscritte le caratteristiche che determinano il pensiero e l’agire: queste non possono certamente prescindere dal substrato neurobiologico (che potrebbe anche essere compromesso), ma non può essere sottovalutato il piano dell’esperienza e la nostra “storia di relazione”.
Gli studi di Self-Theory sostengono infatti che il comportamento sia modellato dalle interiorizzazioni che il singolo fa delle aspettative di gruppo: in sostanza, che questo sia determinato socialmente, proponendo un ruolo importante della percezione di sé in cui l’Identità è impegnata a tracciare i propri elementi base. Sono questi  gli schemi di Sé, che ci consentono di organizzare e recuperare i ricordi e i significati delle esperienze avute.
Nella descrizione del concetto di sé non può quindi essere sottovalutato ciò che l’individuo “ricorda” come peculiare e importante nella propria biografia. Questo elemento non è un dato “storico” (nel senso che può non fondarsi su documenti certi), piuttosto una informazione legata alla significatività del ricordo (quindi “anamnestico”).

Un’analisi anamnestica ben condotta permette di evidenziare ciò che il soggetto sente come caratterizzante il proprio pensiero, perché “spiega” allo stesso i motivi fondanti il proprio agire. Così, chi ricorda di aver subìto un evento traumatico in epoca precedente, attribuirà allo stesso la propria ritrosia a replicare le condizioni che hanno caratterizzato l’esperienza: svilupperà un comportamento “evitante” e si muoverà con percorsi alternativi (e giudicati meno pericolosi).
Il Sé offre quindi la possibilità di predire le classi di comportamenti  attesi (evidentemente non solo le proprie, ma anche le altrui).
Non certamente come un meccanismo attributivo perfetto ed univoco, piuttosto come una linea guida per interpretare le azioni e osservare il presente. Si tratta di “senso comune” sviluppato per via “intuitiva” (che si esprime in modo “ingenuo” più che scientifico) ed ha una funzione assolutamente prioritaria: farci risparmiare tempo attraverso la categorizzazione dei comportamenti e la classificazione delle aspettative.

Abbiamo infatti bisogno di essere rapidi nel valutare e il più possibile accurati nel fornire una risposta al comportamento altrui.
Questa modalità non è indenne da grossolani errori.
Non è solo questione di imperizia, ma anche di funzionamento della nostra mente che subisce l’influenza dei preconcetti.
Vediamo un esempio.

Osservate la figura qui sotto: la maggioranza vi vedrà una composizione astratta in bianco e nero…se non c’è preconcetto.

Cosa ci vedi?I preconcetti rischiano di divenire inconsapevoli e, pur non verificati, assunti di base, che si danno per veri in modo acritico, portano a conclusioni e riflessioni che possono pregiudicare la correttezza nella descrizioni degli eventi.
Se infatti l’esperienza ci rende più attendibile un complimento da parte di chi ci sta dimostrando affetto e vicinanza, più facilmente ci si attenderà una critica o un’offesa da chi si percepisce più lontano, astioso o antipatico.

Esemplifichiamo: la mente rischia di attribuire ad una frase, udita in modo parziale, il “contenuto” che intuitivamente si aspetta.
Il dissenso con una persona, può venir letto come disprezzo di valore  (se l’esperienza mi dice che questa associazione è probabile)…il “stai facendo una cosa stupida” può venire capito come “sei uno stupido”.
L’educatore deve vigilare questo rischio e rendersi conto che più che ciò che viene detto (che pure ha molta importanza) conta molto di più ciò che viene percepito. E ciò che si percepisce è frutto di esperienza, di come uno legge tendenzialmente l’altro e di ciò che riesce ad attribuire a se stesso. Ritorna qui il dato anamestico (per il quale è vero che si può ad esempio apprendere ad essere impotenti, cfr Martin Seligman) che ci permette di inferire e attendersi un particolare comportamento. L’analisi anamnestica evidenzierà il rischio (o la tendenza) del soggetto a leggersi incapace: occorrerà quindi chiarire che quanto capito (“sei uno stupido”) non è ciò che è stato pensato e detto… cioè  (“stai facendo una cosa stupida”).

Ma l’anamnesi deve essere correttamente interpretata, poiché l’esperienza viene descritta dal protagonista con un “inquinamento” ulteriore. Non è solo la “forza emotivo-affettiva” che fornisce dati per una “rilettura” dell’esperienza, ma anche un ulteriore elemento che gli psicologici chiamano “effetto spotlight“, ovvero la tendenza a sopravvalutare la portata dell’attenzione che gli altri rivolgono su di noi. (Timothy Lawson-2010)

E’ questo un sistema difensivo del concetto di Sé, nel quale lo scopo è quello di attribuire importanza a quegli elementi che ci rendono “unici e speciali” e “meritevoli” di attenzione da parte del prossimo. Ci convinciamo così che gli altri prestino attenzione al nostro aspetto e al nostro comportamento più di quanto non facciano effettivamente. Essendo importante “per noi”, riteniamo infatti che lo debba essere anche per gli altri. Ricostruiamo quindi la realtà mettendo al centro la nostra visione del mondo e le aspettative che (pur costruite socialmente) riversiamo sugli altri.
Questo meccanismo della mente è difficilmente controllabile: si pensi all’illusione di trasparenza che ci assale quando riteniamo che le nostre emozioni nascoste possano facilmente venir lette da chi ci osserva.
Dobbiamo ricrederci: nel bene o nel male la gente presta davvero molto meno attenzione di quanto noi riteniamo ci debba essere dedicata. In fondo siamo più opachi di quanto immaginiamo.
Il nostro comportamento è in genere meno consapevole di quanto si possa immaginare…e le nostre emozioni/sentimenti sono “una guida” all’azione di non facile interpretazione per gli altri.

L’effetto spotlight tende a farci credere che, se chiari per me, gli stati d’animo lo debbano essere anche per l’interlocutore. Quindi, il nostro stato “disposizionale”  è da noi ritenuto erroneamente di facile accesso agli interlocutori. Ma, come abbiamo già detto, siamo decisamente più opachi di quanto il nostro “IO” sia disposto ad ammettere.

Torniamo quindi alle considerazioni iniziali:

  1. la ricostruzione anamnestica è importante per avere una guida interpretativa (e predittiva) al comportamento altrui;
  2. gli elementi che caratterizzano il ricordo rischiano di essere interpretati con preconcetti che danno eccessivo valore predittivo agli elementi disposizionali dell’individuo (creando stereotipi);
  3. l’effetto spotlight attribuisce maggiore forza alle interpretazioni sociali di quanto queste siano in realtà, agendo una “pressione sociale” che può aiutarci a spiegare ulteriormente il comportamento osservato o ad anticipare quello atteso.

Il “concetto di sé” ci porta a considerarci “unici e speciali” in una variegata  composizioni di elementi che sono caratteristica propria del soggetto. La conclusione sarebbe quindi che ognuno è inconoscibile e, conseguentemente, imprevedibile nei propri comportamenti. Conseguentemente, sarebbe vano ogni sforzo anticipatorio e ogni progettazione per modellare il comportamento altrui. Nessuna modalità educativa veramente efficace, quindi?

No! La nostra esperienza di relazione ci insegna che non è così: se osserviamo con cura, riusciamo spesso a predire abbastanza correttamente cosa gli altri faranno. Ma occorrono alcune consapevolezze ed attenzioni. Tra le prime il tenere desta l’attenzione sul fatto che ha più importanza cosa viene ricordato della propria vita (con le omissioni e le accentuazioni presenti), piuttosto che una mera lettura cronologica degli eventi. In secondo luogo, il considerare i pattern comportamentali come espressione (quasi) standardizzata legata all’esperienza pregressa così come letta dal protagonista (in fondo abbastanza simili per tutti). Considerare la forza del pregiudizio nelle aspettative comportamentali, che alla fine spinge verso la “profezia che si autoavvera”, è necessario per ridurre (non eliminare!!) il determinismo dell’operatore sociale.

Non ci credete? Tornate sopra a guardare l’immagine. Dopo aver saputo che si tratta di un dalmata che sta annusando il terreno, non sarete più capaci di non vedervi il cane che segue una traccia.

 

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.