Appartenenza come antidoto al burnout

Il lavoro educativo in comunità-alloggio non è per tutti.
L’approdo, invece, è sorprendentemente comune a molti professionisti sociali di primo impiego. Non che vi sia un particolare “fascino” attorno all’esperienza di vita comunitaria, piuttosto, in una congiuntura difficile per il lavoro, l’attività nei servizi residenziali risente meno delle fluttuazioni del “mercato” e gode di un troppo ampio turn-over di operatori. Ne è causa il “burn-out”. Lo si dice per definire l’erosione di energie e di caratteristiche personali (positive e pro-sociali) particolarmente delle figure di aiuto. Si tratta di una vera e propria sindrome, una sorta di rischio professionale, a cui vengono sottoposti i caregivers.

Il fenomeno è troppo spesso sottovalutato dalle organizzazioni, impegnate come sono a contenere le alte spese delle strutture a tecnologia “intensiva” per assicurarne l’esistenza. E’ la stessa identità del servizio, che obbliga a rapporti stretti e in “presenza”, a generare costi elevati del personale. Per minimizzare si può solo massimizzare l’offerta, ottimizzando il minutaggio di assistenza per cliente. Il rischio è però di affidare ulteriori incarichi all’operatore, già iper-saturato nella sua capacità lavorativa, per ampliare il servizio a più clienti, mantenendo il costo del personale ma aumentando i ricavi.
Va da sé che il turn-over di professionisti si fa consistente nelle strutture residenziali di cura e di assistenza, perché le risorse personali sono destinate ad esaurirsi.
Se  si aggiunge che i costi di formazione (obbligatori) e di supervisione (necessari per garantire la qualità promessa), sono visti dalle organizzazioni come spese per un tempo improduttivo, risulta più facile capire come i professionisti di cura vengono spesso abbandonati nella gestione del proprio stress personale e di quello della persona assistita.

Gli “hospices” e le residenze di lungo degenza per anziani e disabili sono ai vertici di un sistema che soffre anche la mancanza di una risoluzione della situazione di vita o di patologia e che, se evidenzia (raramente!) evoluzioni, impone attese di sviluppo che nelle più rosee previsioni si conteggiano in anni. Perlopiù vi si evidenziano involuzioni o decadenze. Il “senso” del lavoro soffre quindi di un’immagine della propria professionalità incapace di essere “risolutiva” o (peggio) “salvifica”. L’immagine del proprio Sé professionale emerge sofferente ed insufficiente.

Il logoramento sul piano psichico e lo svilupparsi di patologie come tipiche somatizzazioni da stress, sono una delle cause di “pre-morienza” operativa e di erosione delle capacità di problem finding e solving. Parimenti, il piano dell’azione professionale spesso collabisce su quello della vita privata. Le problematiche delle persone in cura possono poi diventare così centrali per il caregiver da mantenerlo costantemente in una “situazione fusionale” con il cliente (vedi G. Moretti in Il grave handicappato mentale).

In breve si manifesta un cinismo e una incapacità di provare sentimenti empatici.
Più spesso, si tende ad attribuire ai destinatari delle cure la “colpa” della propria insoddisfazione professionale e del senso di inutile “spossatezza”, in cui le fatiche personali si amplificano e i risultati ottenuti tendono a scomparire. Un fenomeno pericoloso, non solo per gli effetti che innesca sul professionista, ma per il meccanismo perverso che genera nel trascinare verso il “senza speranza” ogni azione o progetto di cura. Le organizzazioni sorveglino, quindi.

Personalmente ritengo che l’MBI, quale strumento di rilevazione del burnout, o la sua più recente elaborazione  OCS (Organizational Checkup System) di Leiter e della Maslach (che indaga non solo le cause, ma le strategie migliori di evitamento dello stress generatore di burnout), sia un modo, seppur con validità diagnostica e di orientamento alla prevenzione, insufficiente per generare nelle organizzazioni ad alta tecnologia “intensiva” una “cultura del prendersi cura” anche dei propri operatori, così come dei propri clienti.
Il rischio è infatti quello di vedere i propri dipendenti in funzione strumentale produttiva, piuttosto che in un’ottica olistica di persona portatore di competenze e abilità, ma anche di sentimenti, aspirazioni personali, desideri di realizzazione individuale.

Meglio sarebbe poter “selezionare” gli operatori, considerando anche la tendenza a sviluppare il burnout, assieme alle altre caratteristiche che renderebbero idonea la collaborazione. Molti sono infatti coloro che pervengono alle professioni di aiuto con una idealità e un entusiasmo “salvifico”, che origina più da un desiderio di autorealizzazione e di desiderio di essere “importanti” per altri, che da una convinta scelta professionale sulla base delle proprie caratteristiche di capacità, sensibilità ed empatia. Altri pervengono per riqualificazione professionale e in risposta all’alienante professionalità pregressa in ambienti solo produttivi. Il rischio di una delusione  a distanza di tempo è però molto alto e la frustrazione, nello scontrarsi con la realtà operativa, produce sentimenti di inutilità, di aggressività e indifferenza.

Elementi non facili da valutare in prospettiva. Tuttavia è necessario sorvegliarsi nella selezione del personale, per discernere tra l’aspirazione a fare un lavoro così faticoso come quello educativo e di cura, la consapevolezza delle proprie abilità (ma anche dei propri limiti), l’idealità misurata e la reale disponibilità a farsi carico di percorsi defatiganti e lunghi incapaci di assicurare il successo.

Succede che, per riferirmi ad una situazione recente, pervenga una richiesta di lavoro da parte di una giovane in cerca di prima occupazione. La ragazza, laureata da poco, intende approcciarsi al lavoro educativo con persone disabili pur avendo una percorso accademico umanistico non strettamente pedagogico.
Al colloquio si mostra interessata, volenterosa, desiderosa di apprendere e di essere immediatamente operativa. Per motivi legati alla necessità di rapporto educatori-clienti da preservare, sono costretto a rimandare la collaborazione e a dare la precedenza ad una collega con titolo specifico. Non faccio promesse (che poi vanno mantenute per coloro che ancora credono che la parola data abbia un valore), perché l’evoluzione economica di questo periodo non permette sviluppi certi. Ma ho motivi di credere che a breve le condizioni muteranno e ci sarà possibilità di operare. Lo faccio presente.
La risposta mi sconcerta. Se durante il tempo di valutazione reciproca è giusto conoscersi (chiede a me e ai miei colleghi “l’amicizia” su FaceBook, segue questi posts, invia mail e SMS con parole di apprezzamento e di conferma della sua volontà di iniziare presto a lavorare) e non mi sorprende che si offra come volontaria per conoscere da vicino la metodologia operativa, al differire l’assunzione o la collaborazione, ne ottengo una reazione stizzita: rinuncia anche ad un paio d’ore di conoscenza diretta del lavoro venendo ad osservare come operano gli educatori in struttura (ma verrebbe dietro compenso!), revoca l’amicizia su FB, cerca di generare sentimenti di colpa per aver “mollato” un’occasione importante di lavoro in attesa di venire assunta dall’organizzazione alla quale appartengo.
E’ una persona certamente acerba, mi si farà notare.
D’accordo! Però lo considero anche un segno dei tempi; di una generazione di futuri caregivers che non sanno aspettare e reagiscono con stizza nell’in-sperato.
Questo è precisamente ciò che mi preoccupa: la trasformazione della speranza in disperazione, dell’azione in apatia, dell’empatia in indifferenza.
Ma sono fortunato (e lo dico sinceramente!): non uno tra i miei colleghi ne è vittima e posso francamente lodare uno spirito di collaborazione e di attenzione alla persona che rendono la mia organizzazione con i suoi servizi residenziali veramente speciale.
Sono lieto di appartenervi e credo che questo “orgoglio” sia un buon antidoto per proteggere almeno un poco dal burnout.
Un secondo è insegnare ai nuovi professionisti che nulla è dovuto e certo: solo fatica, costanza e attesa sono ingredienti di un successo professionale che si misura in periodi lunghi.

Tappe importanti da non “bruciare”.

Tempi di vita. Da non dissipare.

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