“Situazione” versus “Disposizione”

L’indulgenza con la quale incediamo nelle giustificazioni del nostro comportamento scorretto è assai maggiore di quella che siamo disponibili ad accreditare agli altri quando compiono gli stessi atti.
Ci riteniamo migliori: se sbagliamo, si tratta di un “errore”.
Non è disonestà intellettuale, piuttosto un meccanismo di difesa che tende ad auto-attribuirsi minore responsabilità personale nelle situazioni negative e maggiori in quelle positive. Le persone infatti tendono a salvaguardare la visione positiva del proprio Sé, attribuendosi minor colpa e maggiore capacità personale. Ciò avviene con scarsa consapevolezza dell’interessato: se il comportamento o il risultato è positivo, il soggetto si riconosce “disposto” personalmente al successo; viceversa, se si profila un fallimento cercherà di attribuire a fattori esterni a sé la causa dello stesso.
Quando siamo “bravi o capaci” è quindi merito nostro; se non lo siamo è colpa di altri o della situazione.
Tutti abbiamo esperito questo meccanismo, che ha valenza positiva per l’autostima e la difesa dell’individuo dalla depressione. Il senso di difesa del Sé si esprime nella percezione individuale di avere più o meno “controllo” sulle cose che riguardano la nostra vita. Ciò è fondamentale per evitare di disperarsi di fronte all’imprevisto negativo e per non sentirsi in balia dei flutti del contingente, che travolgono e vanificano ogni tentativo di mantenere la propria rotta.

Gli studi di psicologia della personalità hanno evidenziato come le persone siano impegnate a riconoscere internamente o esternamente a sé il controllo sugli eventi.
Julian Rotter, psicologo statunitense che elaborò la Social Learning Theory, propose di identificare tra le caratteristiche personologiche le due antipolarità del locus of control:
interno
tipico degli individui che si percepiscono come capaci di controllare gli eventi;
esterno – di coloro che invece si sentono assoggettati alla fortuna o soggiogati da una volontà superiore imprevedibile.
Gli individui del primo tipo leggono in se stessi la capacità di controllare gli eventi che li riguardano: grazie alle proprie capacità, volontà e aspirazioni si sentono in grado di riconoscere successi e insuccessi attribuendoli direttamente a sé.
Quelli del secondo si sentono invece dominati da forze esterne, in genere capricciose di ordine naturale (fato/destino), di ordine personale (complotto/cospirazione) o di ordine spirituale (volere/giustizia divina).
Il tipo “disposizionalista” lega a sé il merito/causa degli eventi e dei comportamenti che assume;  il “situazionista” si sente in balìa di ciò che non può che marginalmente controllare.
Entrambe le posizioni espongono a pericoli il soggetto, ma la prima può avere un forte valore protettivo al rischio di inazione o di disperazione che paralizza il soggetto verso il cambiamento della propria condizione.
Ovviamente, si può obiettare che si tratta di definizioni personologiche che ingabbiano l’individuo in una categorizzazione estrema e che non rappresentano la realtà: una polarità tipologica utile per descrivere il piano teorico. Ciò che si può osservare infatti è piuttosto una oscillazione tra i due ideal-tipi nella vita delle persone.
Non interessa qui discutere  gli assiomi di una psicologia della personalità, ma vorremmo recuperare una riflessione sugli elementi che possono descrivere il comportamento umano.

Abbiamo osservato come questi meccanismi siano importanti al fine di proteggere l’individuo dal giudizio negativo su di sé: infatti, la polarizzazione tra la “situazione” (come elemento di difesa di Sé) e la “disposizione” (in ottica promozionale dello stesso Sé) si presta a conferire valore positivo al soggetto che giudica il proprio comportamento, tale per cui se si opera male si dovrà cercare la spiegazione nelle condizioni ambientali (la situazione, appunto), se lo si fa bene dipenderà dalla caratura morale e dalle eccezionali capacità di se stessi.
Fin qui il meccanismo è facilmente comprensibile.
Ma perchè questo meccanismo si ribalta se il giudizio è rivolto agli altri?
Qual’è quindi il motivo per cui, quando sono gli altri a compiere azioni sbagliate, si tende a motivare con elementi di “carattere”, piuttosto che accogliere come determinante il ruolo della “situazione”?
Non più di “errore” si tratterebbe, bensì di “cattiveria” dell’altro.

Il processo di attribuzione ha valore morale e il giudizio negativo sull’altro pare soffrire di una semplificazione che ha lo scopo di “marcare positivamente le differenze tra il Sé e l’Altro” (dove il primo è vincente sul secondo!). L’individuo è spinto a soddisfare il proprio bisogno di sentirsi riconosciuto e stimato socialmente (A. Maslow, 1954) e di sentirsi pienamente appartenente al proprio gruppo. Non minore è la necessità di percepirsi in grado di poter esprimere un controllo della situazione e su di sé: ci dobbiamo sentire artefici della nostra vita.

L’attribuzione della responsabilità personale risponde al bisogno di autorealizzazione ed è un elemento fondamentale di definizione del Sé. Il processo è complesso e dispendioso di energie interne tese a creare un’immagine coerente e positiva dell’individuo, capace di risolvere le dissonanze cognitive su ciò che sappiamo di noi stessi. Va da sé che il tempo impiegato per riconoscere intenzionalità nell’agito, senza creare una frattura con gli elementi che fondano la conoscenza su se stessi, è cospicuo: definizioni “sommarie” su noi stessi non sono tollerabili. Nelle occasioni in cui non è possibile impiegare tempo ed energie per esprimere giudizi sugli altri, si ricorre a stereotipie di pensiero e a conoscenze “grezze” che possono essere sostenute da pochi e superficiali dati di conoscenza. Le sfumature e le peculiarità della situazione non possono essere conosciute senza avere informazioni di prima mano: la risposta “disposizionale” semplifica il pensiero in risposte prontamente accessibili e non verificabili. Questo anzitutto ci fa “risparmiare tempo”.
Se l’attribuzione è “negativa”, “prendere le distanze” dal cattivo fa “sentire migliori”, rimarcando una differenza tanto più marcata quanto all’altro si riesce ad attribuire caratteristiche personali indesiderabili. Per differenza, la nostra immagine ne uscirà rinforzata positivamente. La stabilità degli elementi disposizionali protegge dalla minaccia di ritrovarsi in una situazione simile (e correre gli stessi rischi o  agire male).
Questo è particolarmente evidente quando cerchiamo di attribuire alla “vittima” la responsabilità dell”essersi cercata” l’epilogo drammatico: a noi non capiterà, perchè “siamo diversi” (né cattivi, né stupidi, né sprovveduti).
Se l’attribuzione è “positiva”, siamo esposti al rischio di non essere all’altezza del compito nelle medesime condizioni: occorre quindi giudicare le condizioni di partenza come facilitanti e il pensiero sull’Altro si semplifica nell’attribuire il merito più alla “situazione” che alle caratteristiche personali. Si trattasse di persone eccezionali, avremmo un alibi per non riuscire e l’immagine di Sé risulterebbe comunque salvaguardata.

Come abbiamo visto, i paralipomeni del pensiero difensivo sul Sé spingono a semplificazioni attributive sulle caratteristiche personologiche e sulla responsabilità personale del soggetto.
Non si tratta quindi che di un meccanismo psicologico che crea un effetto di cui tenere conto quando l’azione educativa si sviluppa sul tema del confronto e dell’analogia.
L’educatore deve considerare che l’utilizzo dei modelli di riferimento, devono essere commisurati alla capacità e al livello maturato dell’educando.
Anzitutto non possono essere sviluppati attaccando il sistema identitario del soggetto:
1. evitare il “lui/io è/sono migliore di te”;
2. evitare il “sei cattivo” (riconoscendo che anche i “buoni” possono fare cose “sbagliate”);
3. evitare il “sei stupido” (semmai “hai fatto una cosa stupida”);
4. evitare il “chiunque al tuo posto ce l’avrebbe fatta” (piuttosto riconoscere le difficoltà imposte dalla situazione).

D’altro canto sarà opportuno inviare messaggi che puntino a valorizzare il soggetto:
si sarà disposizionalmente validi e magari situazionalmente impreparato.
L’educatore può così essere un aiuto per attrezzarsi meglio e tirare fuori il meglio di sé.

Il meglio, si badi: non l’ottimo!
Raggiungere il meglio è commisurare gli obiettivi alle capacità e al livello di maturazione della persona, in una gara che è per se stessi e non in antagonismo con gli altri.
Il giudizio sull’altro affidato alle nostre cure non può essere approssimativo. Il rischio è di demolire, non partecipando emotivamente alla difficoltà del crescere, evitando di offrire ulteriori chances, disperando si ottenere risultati.
Se la tentazione di ritenere la persona “disposizionalmente” sbagliata diventasse un elemento di giudizio sul soggetto, ci si interroghi su come sia possibile costruire un setting facilitante l’intervento educativo, sostenendo empaticamente chi si affida alle nostre cure.

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