Il colloquio educativo – 01 Premessa

L’interazione è l’elemento principale sul quale si poggia la vita di relazione di ognuno: senza non vi è possibilità di crescita e di sviluppo normale. La comunicazione è lo strumento con il quale si realizza l’interazione stessa e sulla quale esperiamo la nostra quotidianità. Non a caso, il principale compito nei primi tre anni di vita è volto ad imparare e consolidare il linguaggio, come parte di una più ampia capacità comunicativa che viene a formarsi nel soggetto.
I riferimenti teorici sono diversi e tendono a “spiegare” l’acquisizione del linguaggio con approcci teorici differenti:

Chomsky (1960) riconosce nell’ipotesi di una “grammatica universale” (U.G.) una sorta di dispositivo iscritto nel patrimonio genetico come  matrice biologica strutturata (LAD – language acquisition device) dandone una spiegazione innatista;
il Cognitivismo  recupera l’idea piagetiana  sui rapporti tra linguaggio e pensiero (che traghetta dall’intelligenza senso-motoria a quella rappresentativa) per una spiegazione interazionista, ove lo sviluppo dipende dalle capacità cognitive e sociali dell’individuo;
gli approcci funzionalisti puntano ad evidenziare il ruolo dell’intenzionalità oltre al contenuto della proposizione (la competenza è qui “comunicativa” più che “linguistica”);
Bruner, psicologo dell’educazione recentemente scomparso, parla del valore dell’esperienza sociale nella costruzione della capacità cognitive, in cui il ruolo dell’adulto e il contesto rendono “competenti” dal punto di vista comunicativo (1983).

L’esperienza comunicativa appartiene quindi ad ognuno, come modo di interazione quotidiano e continuo che serve a “spiegare il mondo” nei suoi  comportamenti,  routine,  regole e misure.
Thompson distingue 3 livelli di interazione comunicativa:

  1. interazione face to face (ove gli interlocutori condividono gli elementi spazio-temporali in un dialogismo caratterizzato da feedback verbali, posturali e corporei);
  2. interazione mediata (ove ci si avvale di strumenti per comunicare in ambienti e/o tempi diversi);
  3. quasi-interazione mediata (tipico della mass-medialità in cui la comunicazione – e le informazioni- si acquisiscono “direttamente” smarcando l’educatore).

Ai fini professionali ci riferiamo alla prima, consapevoli che nella terza troviamo l’ostacolo di una dis-intemediazione educativa (Aroldi), in cui i nuovi media e la televisione “sdoganano” temi adulti senza tener conto dei soggetti in “via di sviluppo” o che presentano “fragilità”.

Che tipi di conoscenza possiamo vantare sulla comunicazione? Per Boni abbiamo:

  • una conoscenza di senso comune:  si basa su “ciò che tutti sanno”, ovvero sull‘esperienza e sui presupposti che coinvolgono la nostra organizzazione mentale;

  • una conoscenza di tipo professionale: costruita su convinzioni che chi lavora in campo sociale e comunicativo ha sviluppato come esperienza professionale;

  • una conoscenza scientifica: basata su teorie della comunicazione e sulle relative pratiche retoriche (ovvero “del dire”).

E’ qui utile ricordare le “teorie normative“, che più che dirci come le cose avvengono ci orientano a come queste “devono o dovrebbero” funzionare: l’operatore sociale (assistente, educatore, psicologo, medico o sociologo) conduce la relazione comunicativa spesso sulla scorta di “prescrizioni” che sono un mix di conoscenza professionale (come esperienza), di luogo comune (come un “si dice”), di elementi deontologici (come “regole e misure”), di affettività (come ineludibile “relazione”), di funzionalismo (come “euristica”), di produttività (come “processo”).

Va da sé che circoscrivere gli elementi caratterizzanti il colloquio professionale educativo non è operazione facile.

Non è quindi possibile definire univocamente una strategia di utilizzo strumentale né una sicura modalità di azione.
Voglio qui offrire alcuni spunti, che nella mia esperienza ho acquisito e maturato (e che spesso non ho poi ritrovato in teorizzazioni scientifiche): il rischio è quello di aver sincreticamente approntato un modello operativo espresso in una personale teoria normativa, di cui ho verificato spesso limiti e pregi e che è in “continua evoluzione”.
Lascerò quindi agli studiosi la ricerca di una conoscenza teorica, ben consapevole che qui si evidenzieranno alcuni assunti che hanno dimostrato “sul campo” di poter funzionare (seppure in ambito specifico e reale) nella comunicazione con soggetti insufficienti mentali.

Occorre però un’ulteriore precisazione.

Il ruolo di “mediazione” dell’educatore (e del genitore) si esprime attraverso l’incontro “della parola e dell’ascolto” . Ciò significa considerare questo come “luogo” in cui “abitare” la relazione. Prima che di stile si tratta di una consapevolezza: costruire l’ “ambiente” e non il solo setting che fa da contorno all’interazione comunicativa, è un compito in cui l’architettura dello spazio di interazione distingue tra un “io-tu” e un “noi”. Non è una “casa” per il cliente, piuttosto un “mondo”, in cui insieme si definiscono destinazioni ed usi di tempi, spazi e punteggiature.

Per questo, parlare di colloquio educativo non significa predisporre tecniche di ascolto o strategie di comunicazione da implementare nelle pratiche professionali.

O meglio, non solo questo.

Partiamo quindi da una diversa prospettiva: occupiamoci dell’ AMBIENTE, tanto quanto ci preoccuperemmo del “clima”, dei “contenuti” o della “relazione” .
Ma che significa qui parlare di AMBIENTE ?
Mi affido ad una prospettiva ecologica in cui vorrei disegnare un approccio, che prenda distanza dai modelli (desueti?) di “canale” e di “linguaggio”.
Il primo legge il colloquio come strumento neutro: come “canale” non è né buono né cattivo strumento…dipende da ciò che ci mettiamo dentro (i “contenuti”);
il secondo lo vede come “culturalmente connotato” secondo le strutture sociali (io sono l’educatore e tu l’utente/cliente) e i valori del gruppo dominante (quello degli operatori, evidentemente).

Pensare ad un “approccio ecologico” significa considerare l’ambiente dell’esperienza quotidiana, nel senso di un’atmosfera che avvolge l’azione educativa dando forma alla “situazione” che “soffre” di inquinamenti sul piano dei valori, delle regole, delle misure e in cui il “contesto” di riferimento è più ampio dell’esperienza di vita (magari ridotta perché “istituzionalizzata”!), ad esempio grazie all’azione mediata dagli strumenti tecnologici e dai mass-media. Questi sono caratterizzati da un linguaggio proprio (musicale, ad esempio, oppure sportivo) che forniscono spunti ed elementi introduttivi o per l’importante funzione fàtica della comunicazione (Jakobson).

Come possiamo definire il colloquio?
A partire dagli anni ’40, mentre Shannon e Weaver proponevano la loro Teoria dell’informazione (che riprenderemo più avanti, per gli effetti di bias e l’importanza del feedback), psicologi e psichiatri hanno dato diverse interpretazioni:

una conversazione con un proprio scopo (Moore); una comunicazione capace di produrre nuove e importanti conclusioni per chi vi partecipa (Sullivan); un processo di interazione capace di sviluppare atteggiamenti, evidenziare motivi e credenze dei protagonisti (Cannel); una interrogazione diretta ad interpretare i comportamenti di una persona (Ancona-Gemelli).

Comunque lo si interpreti, il colloquio rappresenta un incontro che ha lo scopo di produrre comprensione degli eventi, orientamento per i problemi, indirizzo per i valori, condivisione e negoziazione per le norme, socializzazione di emozioni e sentimenti, espressione di opinione e giudizi.

Stiamo quindi sul campo dell’educazione speciale e vediamo come il colloquio educativo, che vorremmo definire come lo strumento principe dell’azione professionale, debba tener presente alcuni elementi.

 

02 Regole e misure (area iscritti)

Il counseling

I profili comunicativi

Gli stili comunicativi

La comunicazione assertiva

 

 

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