Crisi della formazione universitaria nel campo delle Scienze Umane e Sociali

Mi trovo a dover constatare una crisi diffusa delle agenzie formative che si occupano delle Scienze Umane. Il “disprezzo” sociale di cui soffre la professione di “educatore” colpisce tutte le declinazioni operative di coloro che si occupano della formazione e del sostegno a persone con percorsi di vita in fase evolutiva, involutiva o più in generale che stanno vivendo momenti di difficoltà. Se nel contesto statunitense vi è uno spiccato ricorso a professionisti sociali che si occupano del “mal di vivere” (in particolare l’utilizzo, anche ornamentale o di ricerca del prestigio sociale nell’intraprendere percorsi di cura, delle figure professionali dello psicologo e dello psichiatra), il riconoscimento europeo dato ai professionisti dell’educazione e di cura è decisamente basso. Merito anche di una certa trascuratezza nella preparazione curricolare (pressapochismi e un sapere frammentato) e di qualche arroganza professionale (che tratta la propria metodologia operativa come l’unica possibile).

Si obietterà che incapacità professionale, disimpegno personale, logiche di accapparramento personale, disinteresse per le implicazioni del proprio lavoro per l’ “altro”, è diventato un “lifestyle” così diffuso da non destare più indignazione.
Manca una responsabilità personale ad un cammino di crescita e formazione professionale.

Questo non pare risparmiare più alcun campo delle professioni: errori di progettazione edile che fanno crollare edifici, errori diagnostici e terapeutici, errori di conduzione dei mezzi ferroviari, un diffuso disprezzo delle regole del vivere comune, uno strisciante desiderio di riconoscere maggior scaltrezza in noi stessi, una superficialità di relazioni, uniti ad un senso di “impunibilità” di crimini che permeano il senso di giustizia e frantumano l’etica in una visione “egocentrica”.

Questo ci pone innanzi all’interrogativo di perchè l’educazione e la formazione abbiano abdicato alle proprie funzioni. Il piano formativo resta sul teorico, non si permea di valori, si sostanzia di uno studio mnemonico (e non finalizzato!) di teorie sociologiche, psicologiche o pedagogiche incapaci di trasferirsi sul piano del lavoro quotidiano e su una “trasformazione e un miglioramento” interno in cui si radica consapevolezza e governo di sè.

Mi fa rabbia, lo devo ammettere, che proprio gli educatori, che a differenza dei colleghi psicologi (che curano), sociologi (che studiano e spiegano), insegnanti (che agiscono sull’apprendimento) siano diventati la categoria più incapace di produrre cambiamento e aiuto. E riconosco, con la libertà di chi alla categoria ci appartiene da più di vent’anni, che la “colpa” è anzitutto proprio nostra. Rilevo infatti la mancanza di uno spessore intellettuale e di preparazione, unita ad una disinvoltura nei comportamenti operativi che soffrono di eccessiva “spontaneità” (che poi si direbbe “improvvisazione”!), che affligge  buona parte dei professionisti. Mi chiedo perchè oggi l’educatore si lasci vivere da una quotidianità (certo logorante e soggetta ai continui rischi di burn-out) senza prendere in mano il proprio sapere e ampliarlo con la ricerca sul campo e il confronto con altri colleghi.

Certo riconosco come causa lo scolamento con l’istituzione universitaria, che oggi esprime una forma di educazione “bancaria”, tesaurizzata e incasellata, incapace di una ricerca dinamica del sapere, di una collaborazione nella ricerca della conoscenza e nella generazione di metodologie valide e validate dall’esperienza.  Se infatti questa non si offre a creare occasioni per far esperire un’apprendimento saldato ad un percorso di consapevolezza di sè, non si può certo pretendere che un giovane educatore diventi ipso facto formatore di se stesso.
Il mondo accademico fornisce certo quadri interpretativi e modelli teorici di riferimento, che il buon univeritario studia (e a volte anche approfondisce), ma che è finalizzato alla certificazione di un “sapere”. Si studia per rispondere a domande sull’esame che verte su quel testo. E per il fare?

Le università sanno veramente cosa fanno nella pratica quotidiana i providers di servizi?
E questi si sostanziano nel “fare” di ricerche e nuovi modelli che il mondo accademico indaga e offre?
Ho l’impressione che gli uni non cerchino gli altri e che il procedere resti suddiviso tra una linea teorica e le esigenze della proassi quotidiana.
Non che non si sia alla ricerca di un afflato tra formatori e servizi alla persona, ma questo soffre di un’esperienza a “senso unico”, dove le università inviano tirocinanti senza fare dell’ “occasione” un punto di contatto per una conoscenza e una riflessione reciproca.
Si spera (probabilmente) che lo stage introduca un “saper fare” e fornisca le occasioni di trasformazione personale che il solo studio di un testo non può certo garantire.

Consideriamo pure che gli aspetti dimensionali rendono il dialogo con le Università assai difficile, visto che i servizi sono sostenuti da piccole imprese che non trovano audit nel contesto accademico e che esprimono una pluralità di approcci.

Occorre tuttavia trovare un modo per portare alla luce le esperienze positive e le buone prassi, che altrimenti rischiano di essere un’esperienza locale condannata all’ignoto.

Non ho grandi ricette da proporre, ma partirei dai momenti di stages (che sono vissuti spesso come tempi in cui l’azienda può mettere a “riposo” i propri operatori, che vengono sostituiti dal tirocinante e non come occasioni di confronto con le agenzie formative) per “obbligare” il servizio ad una analisi di come funziona la propria organizzazione, a redigere modelli operativi, metodologie e strumenti.

Le università dovrebbero quindi “obbligarsi” a far salire in cattedra i professionisti che da anni operano nella realtà, non come occasione a “spot”, ma come percorso ricorrente e frequente di incontro tra mondo del lavoro e studenti.

Resta ancora da stabilire come garantire non solo la “conoscenza tecnica” nel futuro professionista, ma anche il suo armonico sviluppo personale che gli permetterà di aiutare l’altro.

Questo sforzo aggiuntivo è necessario, perchè nell’Educazione non esiste alcun valido Manuale, ma una ricerca continua che si confronta con i drammi e le conquiste di ogni giorno. Da educatori questa è una responsabilità che non si può sfuggire o rendere secondaria, perchè se ci proponiamo come “maestri” (magister) di vita, sappiamo che ci occupiamo delle “cose maggiori”.

Non è questione solo di un servizio di accudimento fisico o di preoccupazione del governo di una situazione: questa è in fondo la funzione del ben più misero “ministro”, che dal genitivo ministreis –  minoris ci ricorda che si occupa delle cose “minori”. Non non importanti, ma certamente meno delle altre.

L’educatore si impegni allora verso i destinatari dell’intervento alla trasmissione della ricerca personale di valori fondanti il vivere, del sostegno al cambiamento, dello scoprire se stessi e di spingere ad un vivere pieno.
Ma prima si impegni a “pretendere” da sé nulla di meno.

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