Progetto Educativo Personalizzato vs. Progetto Educativo Individualizzato

Progetto educativo Personalizzato o Individualizzato?
Non una sottigliezza lessicale, ma un approccio differente in modo “sostanziale” .
Pongo la questione perché da almeno quindici anni combatto per una metodologia operativa rispettosa della co-progettazione educativa con i destinatari della stessa. Parlo di persone adulte diversamente abili (per dirla in modo politically correct), che nella sostanza non sono effettivamente in grado di esprime una propria opinione coerente con uno sviluppo possibile della loro biografia futura. E dico, nello specifico, di persone con problematiche di insufficienza mentale anche di grado consistente.
La redazione di un Progetto diventa un elemento centrale della programmazione di attività di sostegno, educazione ed orientamento al quale nessuna struttura assistenziale può sottrarsi. Eppure, sono ancora molte le realtà di lavoro educativo che trattano l’evento educativo come fenomeno incidentale, lasciato all’intuizione del professionista o ad una “prassi” operativa non codificata o “spontanea”.
La questione sta quindi anzitutto nel dotarsi di una traccia di percorso che almeno evidenzi un’intenzionalità educativa e obiettivi da raggiungere.
E’ una questione di serietà e di etica professionale: nessuno accetterebbe di pagare un servizio incapace di produrre risultati e con un approccio disinvoltamente pressapochista.
La tentazione è forte, poiché spesso i destinatari del progetto non sono in grado di difendere i propri interessi e di riconoscere il senso unitario di un percorso al quale si sottopongono. Resta quindi in mano al professionista l’onere di progettare e di verificare contemporaneamente la propria azione educativa, riferendosi ad un preciso approccio metodologico che si poggi su valori condivisi nell’organizzazione.

Il primo punto è quello di interrogare, con un’azione dialogica, l’organizzazione stessa per poterne identificare non solo i valori professati, ma anche l’orientamento e la sua visione del mondo. La terminologia è nota e fa riferimento alla vision e alla mission dell’organizzazione. La prima esprime l’approccio della stessa verso il sistema ambientale che l’accoglie: si interroga in particolare sul desiderio di cambiamento (o di mantenimento) del proprio contesto. L’organizzazione, con la propria azione, tenta cioè di cambiare ciò che non trova desiderabile nell’ambiente che la circonda, ovvero difende la situazione stessa. Con la seconda, ci si dà una missione, ovvero un sistema di azioni coordinate, dotate di senso e con un’intenzionalità sociologicamente rilevante che ne sottende la motivazione. Nell’organizzazione si deve quindi trovare la forza di un procedere in modo sistematico e logico per gli obiettivi dichiarati.
Senza questo, nessuna impresa sopravviverebbe alla caoticità di azioni approssimative e in modo accidentale verso i propri obiettivi.
Eppure, nel campo dell’educazione degli adulti (ed in particolare dei “minus”) si considera prioritaria e sufficiente la “vicinanza affettiva” dell’operatore, piuttosto che un progetto sensato di lavoro. Non intendo che la seconda sia efficace senza la prima, ma solo che la buona disposizione d’animo non possa essere sufficiente per un intervento che si dica “educativo”. Un’azione dialogica quindi a partire dai riferimenti di valore del contesto organizzativo.

Il secondo punto riguarda l’individuazione degli obiettivi di lavoro e delle finalità dell’intervento da produrre. Questo afferisce ad uno studio preliminare degli assetti di funzionamento e di esistenza del soggetto stesso, che in qualche modo devono essere indagati. Suggerisco quindi di dotarsi di una griglia che consideri alcuni “assi” di osservazione (e di cui rimando ad un ulteriore approfondimento).
Gli obiettivi di lavoro vanno chiaramente dichiarati ed espressi in una logica di azioni che produca uno scheduling di azioni sinergiche e coerenti. Diventa quindi necessario dotarsi di uno strumento che descriva il processo da implementare (il Progetto appunto), per evitare l’intervento estemporaneo ed un percorso accidentale.

Il terzo punto è relativo all’interrogare l’approccio metodologico per definire la coerenza tra i valori dell’organizzazione, quelli del singolo professionista e gli obiettivi da raggiungere.
E’ evidente la necessità di una “negoziazione” interna dove si incontrino non solo gli orientamenti dell’organizzazione con quelli dell’educatore, ma anche nelle priorità degli obiettivi da raggiungere rispetto a criteri di precedenza e urgenza (e anche qui rimando ad un ulteriore approfondimento).

L’importanza di dotarsi di uno strumento complesso e articolato, capace di descrivere e anticipare percorsi di formazione è quindi evidente: la formulazione del Progetto educativo non può quindi essere una “scelta” lasciata alle organizzazione o ai suoi membri, ma una necessaria modalità di procedere.

Qui si apre la scelta tra l’ “individualizzazione” e la “personalizzazione” del Progetto educativo stesso. Do conto delle differenze che vi leggo.

Anzitutto, considero il Progetto Educativo Individualizzato (PEI) soggetto alla “logica” del servizio o, meglio, vincolato dai limiti che l’organizzazione si pone, dalle risorse che mette a disposizione, dalle priorità che lo caratterizzano. Il PEI si innesta quindi in una Programmazione generale del servizio che traccia percorsi possibili, attività già codificate, metodi di lavoro collettivi e procedure stabilite. In questo l’individualizzazione è un’azione di “potenziamento” che si costituisce sull’individuo in una serie di obiettivi generali prefissati sarebbe a dire che all’interno di un percorso prefissato ci si può permettere qualche “deviazione” ritagliata sui bisogni dei destinatari. Ne è un esempio tipico la scuola, che all’interno di un percorso ministeriale di apprendimenti da raggiungere per ogni livello di classe, elabora per l’individuo un percorso di “sostegno” o di “potenziamento” per recuperare le deviazioni negative della media, o per incrementare e approfondire temi che già sono stati appresi sufficientemente. E’ evidente che gli obiettivi sono fissati e non negoziabili e le “modifiche” ai percorsi sono al più rispettose delle caratteristiche individuali del destinatario.

Il Progetto Educativo Personalizzato (PEP) accede ad una logica diversa. Centrale è la persona, con le proprie risorse e propri limiti, con i propri percorsi da fare e azioni da svolgere. E’ la persona che determina, sulle base delle proprie caratteristiche sia di tipo identitario che di funzionamento, la via progettuale. La struttura cerca di adeguare le proprie risorse o di reperirne altre, tenendo come linea di displuvio l’impossibilità di dotarsi degli elementi necessari al progetto come condizione di rinuncia all’intervento. In sostanza l’ottica qui è ribaltata, non sono più le peculiarità della struttura a determinare il percorso educativo, quanto il bisogno della persona a interrogare l’organizzazione sulla possibilità di fornire un percorso dotato di senso e “ritagliato” sul destinatario stesso. La “partecipazione” del soggetto sta quindi nella sua titolarità ad esserne riconosciuto come destinatario. Egli può quindi “scegliere” e attivare una sorta di contratto di partecipazione in cui si impegna verso gli obiettivi che aiuta a determinare.

Il soggetto diventa quindi “cliente” (in un’ottica rogersiana), con diritto di esprimersi verso tutti quegli elementi che riguardano la sua vita. Egli può scegliere, come ognuno di noi può scegliere il proprio provider telefonico (ed eventualmente cambiarlo se non si è soddisfatti del servizio ricevuto). La definizione di “utente” (di colui cioè che “usufruisce”) pone il focus sulla possibilità di ricevere un servizio alle sole condizioni prescritte dal contratto con il provider. Un utente, se vuole quel servizio, non può scegliere, ma solo adattarsi alle fattispecie previste dall’erogatore dello stesso. Il parallelo è con il Servizio di Acquedotto Comunale che non si può scegliere: se non mi va bene il tipo d’acqua, perché troppo calcarea ad esempio, potrò scegliere di non allacciarmi alla rete ma non di avere potere contrattuale nel decidere la durezza della stessa.
Infatti si è utente della fornitura d’acqua e cliente di una compagnia telefonica.

La differenza non è di poco conto: il PEP ha i suoi clienti, il PEI ha invece utenti e destinatari.

Ritorniamo al punto iniziale: che senso ha far partecipare persone, non in grado di discerne compiutamente, a scelte relative al proprio progetto educativo?

Se il senso sta solo:
1. nell’impegno personale per realizzare un obiettivo condiviso;
2. nel potere di contrattazione che rende corresponsabili del proprio progetto di vita;
si potrebbe addurre che molti minus non sono in grado di comprendere appieno questi significati. Ma mi chiedo se questo giustifica il non fare neppure uno sforzo di “traduzione” del progetto stesso in un linguaggio accessibile a chi ne è destinatario. Se il progetto sarà capito e condiviso, ne otterremo solo l’indubbio vantaggio di una collaborazione forte e di una più alta motivazione.
E se ciò non fosse possibile?

E’ necessario qualcuno che garantisca la congruità e la coerenza del PEP. Familiari, Tutori, Amministratori di sostegno e Assistenti Sociali debbono condividere e appoggiare il percorso da intraprendere con una forma di “protocollo d’intesa” da sottoscrivere.
Se questo non avviene, il servizio rischia un’autoreferenzialità incapace di interrogarsi e di promuovere sviluppo e miglioramento.
La qualità migliore da ricercare deve essere un preciso punto di qualità che ogni organizzazione formativa ed educativa deve sottoscrivere.
Un preciso impegno a non pretendere da se stessi nulla di meno, sai dalla parte del cliente, che da quello dell’educatore.

Da anni io e miei colleghi della Cooperativa Sociale “Arca 88” portiamo avanti l’idea di progettare l’educazione ancorandoci alla personalizzazione dei percorsi, in una necessaria condivisione con i nostri clienti e le loro famiglie (o chi ne rappresenta gli interessi). Perché il lavoro che frutta è quello che parte dalle sinergie e dalla chiarezza di obiettivi, rivolto al  “possibile”, senza vendere fumo o  promettere miracoli.

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