La relazione educativa riserva sorprese.
Ve ne sono di desiderabili e di quelle che si vorrebbero evitare. Alcune sono “spiazzanti”, nel senso che mettono “fuori posto” il rapporto educativo, legandovi significati che si spingono oltre il “limite” in cui la relazione di aiuto si deve fermare. Questi elementi “totalizzano” l’interdipendenza e la snaturano, facendo sconfinare nella dipendenza della diade educativa chiusa ed esclusiva.
Le ragioni per le quali ciò può avvenire sono certamente molteplici e alcune direttamente collegate alla missione educativa. Il progetto esistenziale dell’educando passa infatti attraverso una relazione autentica e profonda con l’educatore, che nella quotidianità dell’affiancamento, dello scaffolding e dell’aiuto rendono possibile e meno faticoso il “vivere” e spesso il “sopravvivere” del proprio cliente.
Le funzioni educative sono affette dal “rischio” nel quale l’operatore è direttamente e strettamente coinvolto, mostrandosi anzitutto per la genuinità di un essere “se stessi” che “compromette” l’operatore stesso nella costruzione di un rapporto fiduciario, in cui non si può certo pensare di poter vivere a fianco delle persone senza sporcarsi dello stesso sugo che arricchisce l’esistenza di ognuno.
Non sostengo che ciò debba avvenire senza un minimo di protezione personale del professionista, che mi pare invece debba giocare la partita educativa con “dadi truccati” a favore del destinatario del proprio intervento. Il suo coinvolgimento dovrà essere certamente tutelato dalle tecniche metodologiche di cui esperienza e teoria dotano l’educatore.
Capita quindi che la relazione riservi sorprese e l’operatore resti coinvolto ancor più strettamente in un rapporto che chiede oltre quanto sia possibile: l’innamoramento dell’educando è uno di questi.
I discorsi teorici sono noti, così come inevitabile riferirsi al concetto di “transfert”, di cui però occorre evidenziare che l’accostamento a quello tipicamente “psicoanalitico” può essere fuorviante. E’ noto che questo è una sorta di proiezione, con valenza emozionale positiva o negativa, sviluppato dal soggetto in terapia verso il terapeuta. Per Freud è a pieno titolo un innamoramento che si sviluppa verso l’analista e che sottende un conflitto irrisolto in fase infantile descritto come complesso di Edipo/Elettra a seconda del genere dell’analizzato. Di questo fenomeno, del tutto naturale, il terapeuta tende ad avvalersi per portare a dissolvimento la dipendenza e permettere al paziente di affrancarsi dalla figura autoritaria sostenuta e interpretata dall’analista, che grazie a come gestisce il proprio “contro-transfert”rende evidente una possibile via di soluzione.
Il lavoro di ricerca Riccardo Massa nell’approccio della Clinica della Formazione tende ad attribuire una similitudine al concetto di transfert educativo con quello freudiano: diverso è il setting e il confronto è temporalmente marcato in una maggior presenza nella relazione educativa, in cui il coinvolgimento non è terapeutico ma di sviluppo.
Alcune scuole pedagogiche e andragogiche sono ostili al concetto di transfert educativo, non tanto perchè non ammettano la possibilità che si sviluppino emozioni di “trasferimento”, quanto piuttosto perchè l’educatore tende a proteggersi dal futuro con un passato che si fa reiterazione di proiezioni personali e sociali stereotipate che esprimono situazioni di doppio legame (vedi Bateson e la scuola di Palo Alto), che quindi ne impediscono lo sviluppo.
Il tema è certamente complesso e ampio e non può venire compresso in poche righe per una trattazione teorica completa, di cui occorre dire che il beneficio è per la sola letteratura scientifica. Più utile (e nella speranza di tracciare le linee per una riflessione operativa), è il delimitare il campo del presente post alla relazione con persone adulte con insufficienza mentale. La dissertazione avrà una valenza di nicchia e non sarà sostanziata da dati teorici certi, lo riconosco. Ma vi vedo un’utilità pratica che alleggerisce lo studio a favore di un “fare” operativo orientante. Lo faccio anzitutto nella speranza di poter suscitare un confronto con gli operatori dei nostri servizi, che ultimamente si interrogano preoccupati sull’essere destinatari di proiezioni affettive di infatuazione.
Se infatti “far innamorare” i destinatari dell’azione educativa è un modo efficiente (che ha il vantaggio di far riconoscere l’operatore come “maestro di vita” e quindi sicuro riferimento e guida/contenitore in un tempo in cui le istanze di autonomia tendono a far rifiutare anche l’interdipendenza), è vero anche che lo scivolare sul piano di un coinvolgimento affettivo esclusivo e passionale del nostro cliente è un’eventualità frequente. Nella nostra metodologia operativa neo-rogersiana questo avviene ancor più facilmente perchè, se nelle logiche del “voler bene”, l’innamorarsi dell’altro è una dinamica sottesa all’empatia (che fa mettere l’operatore nelle condizioni dell’altro in una sospensione del giudizio e in precisi confini psicologici), il rischio di avere su chi aiuta e si prende cura una proiezione totalizzante del proprio “essere”, porta velocemente a creare le condizioni di una proiezione erotica che si trasforma in dipendenza e in sofferenza.
La questione preoccupa non poco: principalmente perché l’operatore si trova spiazzato e spinto a dare risposte che teme allontanino il cliente e mettano in crisi la quotidianità faticosamente costruita e ritenuta generalmente positiva; la comunicazione, poi, tende ad andare in crisi, perché l’operatore (nel tentativo di riportare ad una lettura chiara di propria distanza emotiva che non vuol collabire nella relazione erotica) inizia ad interrogarsi ossessivamente sui propri gesti e sulle parole, scivolando verso un’inautenticità che rende il discorso educativo inefficace.
Occorre quindi porre attenzione alle “punteggiature” oltre che ai “discorsi” (cfr. C. Scurati).
Queste partono da un confronto serio in equipe, dove il “problema” sia condiviso e sostenuto da tutti: occorre infatti evitare di lasciare il singolo educatore esposto da solo alla richiesta di un rapporto esclusivo. Come primo punto direi che è necessario saper fare squadra e trattare l’innamoramento così come si fa per le altre questioni nodali che richiedono una strategia comune di approccio. Il cliente infatti tenderà a riportare il piano del confronto e della rassicurazione, all’acquiescenza del destinatario del suo sentimento, “tagliando regolarmente fuori” il contesto di cura e di occasione nel quale si è sviluppata la relazione educativa.
Su questa prima punteggiatura mi viene da suggerire che (senza aspettare che si verifichi un caso di innamoramento) si debba parlare da subito di regole che governano la relazione educativa tra adulti: la prima può essere la dichiarazione che l’organizzazione non permette la possibilità che tra educatori e clienti si possano sviluppare delle storie di amore, perché l’attenzione e l’imparzialità dovuta a tutti gli altri clienti verrebbe messa in crisi da un particolare rapporto personale esclusivo. Sia chiaro: ad ognuno è possibile (ed è dovuto il) garantire un rapporto personale (perchè il progetto esistenziale di ognuno è unico), ma l’esclusività pone anzitutto la rottura di un “contratto” di servizio che il professionista si obbliga a rispettare anche nei confronti dell’organizzazione (la quale deve garantire principi di erogazione del servizio egualitari e imparziali). Una seconda è che se si hanno obiettivi diversi (percorsi educativi vs. coinvolgimenti affettivi di innamoramento) non si riuscirà a compiere un percorso comune e lo scopo di “fare storia insieme” si perde dietro un “avere una storia insieme”.
Ma occorrono ulteriori punti per dare senso al discorso educativo.
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