Sul senso di autonomia relazionale nell’educazione…

Un case analysis recente per una progettazione educativa pone alcune questioni terminologiche sul significato di autonomia nella relazione. La collega, chiamata ad illustrare il sinottico dell’assetto funzionale, indica sul tabellone la diagnosi relazionale provocando una discussione sul significato del termine autonomia.
Il progetto prevede infatti la possibilità di affrancamento dalla comunità-alloggio di una ragazza con lieve deficit intellettivo e una strutturazione nevrotica del sistema di difesa interno. A questa viene attribuita un’autonomia completa di relazione; tuttavia l’osservazione evidenzia un forte bisogno di mediazione e fuga da rapporti coinvolgenti sul piano affettivo. La questione diventa se la ragazza possa affrontare un progetto di vita
indipendente.
Alcuni membri dell’équipe mostrano perplessità sull’attribuzione di un punteggio elevato nelle autonomie e nelle competenze sociali: ne scaturisce un dibattito che fa emergere differenze di significato e causa fraintendimenti, tra chi oppone declinazioni diverse per i due termini e chi li ritiene sostanzialmente simili.
Ovviamente, la diversa formazione accademica sostiene definizioni variegate nei significati che, pur raccordandosi sul senso più ovvio, genera sfumature interessanti e capaci di alimentare il confronto.
Una certa confusione è dovuta all’utilizzo di termini come autonomia, competenza, indipendenza, autosufficienza, che vengono impiegati quotidianamente come sinonimi nel linguaggio comune.

Propongo qualche claudicante riflessione che, lungi dal desiderio di produrre un significato al quale riconoscere la dignità di lessico professionale adeguato, possa stimolare il pensiero comune su quegli elementi caratterizzanti la vita delle persone.
Fondo il ragionamento a partire dall’esperienza con persone disabili e oligofrenici, ma l’ottica può essere espansa anche alla categoria di “normalità”.

Quale può essere il senso di autonomia relazionale?
Il termine deriva dal greco: “autòs”, fare da soli, e “nòmos”, legge o norma o misura. In buona sostanza diremmo “farsi le norme da sé” o “darsi una misura”.
Rappresenta evidentemente un incontro tra qualcosa di “funzionale” da una parte (poiché è innegabile che ognuno sia sottoposto a -e necessiti di- leggi alle quali riferirsi) e l’apprendimento delle regole e del funzionamento della relazione.
Le autonomie fanno riferimento quindi (e scontatamente!) ad un buon livello di “cognizione”, poiché è necessario conoscere (e scegliere!) per introiettare le regole del comportamento di relazione. Darsi delle regole da sé, seppur mutuandole dal gruppo sociale, è il primo passo per conquistare l’autonomia sociale: questa rappresenta quindi la consapevolezza del soggetto di come le relazioni funzionano e si sviluppano.
Diciamo che l’autonomia ha a che fare con il “sapere”, ovvero con la “conoscenza” e la “comprensione” delle regole del vivere comunitario.

La competenza sociale si riferisce alla capacità di mettere “in pratica” ciò che l’autonomia offre “in teoria”.
Qui si ha una maggiore complessità poiché questo saper fare è l’ “applicazione ovvero la capacità di affrontare e risolvere i problemi concreti sulla base di principi, norme e prassi che regolano l’incontro sociale.
Non basta! Si richiede un’ “analisi”, come capacità di identificare gli elementi costitutivi e organizzativi nelle relazioni, evidenziandone i nessi espliciti ed impliciti, e una “sintesi”  capace di fornire un sistema interpretativo coerente e globale che guida organicamente la complessità dell’esperienza di relazione.

La “valutazione”, che il soggetto è chiamato ad esprimere come giudizio di validità e di adeguatezza delle norme e della propria abilità, rappresenta il piano del “saper essere”, come negoziazione e capacità di un soggetto di governare da solo le proprie relazioni e i propri impegni sociali. Qui si presuppone quindi l’abilità di operare una “scelta” personale (che coinvolge il soggetto in una valutazione, anche morale, delle norme e delle prassi). Questo è il piano dell’ autosufficienza sociale(che non chiede mediazioni o filtri a terze persone, anche se si espone al confronto).

I più si saranno accorti che ci si è riferiti alla tassonomia di Bloom, nei suoi 6 livelli di obiettivi educativi, per evidenziare cognizione ed intellezione nella proposta di questa differenziazione terminologica. Nella formazione delle autonomie e delle competenze, il passo successivo è quindi determinato dal raggiungimento di un’autosufficienza che pone il soggetto in un pieno stato di maturazione. Questo ha come logica conseguenza la possibilità di operare scelte consapevoli, che esprimono così il grado di responsabilità personale nell’azione.

La persona autonoma sa cosa occorre fare per agire, è competente quando è in grado di sviluppare correttamente e per giuste fasi l’azione, diventa autosufficiente quando sa decidere se, quando e perché farlo. Solo così è veramente responsabile e può gestire gli elementi della propria vita con chiarezza e piena consapevolezza.
Va da sé che il funzionamento di questi elementi non può essere considerato a “soglia”, ovvero come livelli da raggiungere ordinatamente, ma come una conquista, anche parziale, di conoscenza e di elaborazione della stessa nell’esercizio dell’esperienza individuale.

Prima di concludere dobbiamo analizzare ancora cosa si può intendere con indipendenza sociale. Una definizione relativa al “non dipendere dagli altri” è sul piano ideale e non ha senso alcuno nella vita di relazione. Viene da notare infatti che ognuno di noi è soggetto e contribuisce ad un’interdipendenza che si fa comunione di affetti e condivisione di sentimenti, oltre che dipendenza sul piano pratico da cose che altri fanno per noi e di cui non abbiamo consapevolezza. Di fatto sto scrivendo sul mio PC questo articolo e dipendo non solo dal lavoro di molte persone che hanno costruito ed assemblato il mio computer, ma anche da chi in questo momento mi sta assicurando la fornitura di energia elettrica per il suo funzionamento. Non posso certo dire che sono indipendente nelle cose che sto facendo!
Ma occorre ridurre il campo della riflessione, se non si vuole ridurre al piano ideale l’indipendenza sociale.
diciamo allora che una persona può dirsi indipendente quando il suo agire (scelto e consapevole) si può tradurre sul piano pratico senza la necessità di un intervento esterno diretto per svolgere le sue attività.

Facciamo un esempio.
Se io ho un lavoro e devo presentarmi ad un orario preciso della mattina occorrerà che sappia organizzare me stesso. Dovrò infatti svegliarmi ad un’ora determinata e sufficiente per permettermi di vestirmi, fare colazione, scendere in strada e prendere un mezzo pubblico che mi porti a destinazione per l’ora di inizio del lavoro. Lo schema può essere noto e chiaro, ma occorre anche che sappia come fare per vestirmi e scegliere i vestiti, cosa preparare e mangiare  per colazione, ecc. Se vado in crisi sulla scelta del colore della maglietta da mettermi o ho bisogno che altri verifichino che mi sia alzato, non sono certamente autonomo. Non sono competente invece se non riesco ad implementare i vari passaggi da solo, perché ad esempio operare con il forno a microonde  mi crea un’ansia bloccante o sono incapace di gestire l’imprevisto.
L’autosufficienza mi permette di scegliere e di declinare diversamente le situazioni per rispondere a quesiti o situazioni non abitudinarie, ad esempio come fare se perdo il mezzo di trasporto e mi accorgo di non riuscire ad arrivare per tempo a lavoro, se ha senso chiedere un passaggio a qualcuno o se mi espongo a rischi eccessivi, ecc. Sono indipendente se posso fare cose da solo, senza che altri le facciano per me.

Si osserverà che indipendenza e autonomia hanno significati profondamente diversi: la prima prevede la necessità di un aiuto da parte di un’altra persona nell’esercitare alcune azioni (ad esempio qualcuno che spinge la sedia a rotelle per farmi fare uno spostamento), la seconda mi permette di scegliere cosa fare e sapere come (ad esempio indicare a chi mi assiste dove voglio andare per fare qualcosa).

Nell’esercizio dell’autonomia e dell’autosufficienza c’è quindi una libertà personale che permette di orientare le nostre azioni a ciò che vogliamo fare.
Questa tuttavia può dipendere da altre persone che mi mettano in condizione di fare ciò che desidero, perché un mio oggettivo limite non mi permette indipendenza.

L’operatore sociale e l’educatore devono tenere ben presenti queste sfumature e resistere sempre alla grossa tentazione di ottimizzare tempi ed energie personali sostituendosi al cliente: questo uccide la libertà e la responsabilità dell’altro.
Meditiamoci e lavoriamo con fiducia nelle evoluzioni di chi si affida a noi per imparare, per essere orientato a scegliere, per esser accolto…per vivere.

3 Risposte a “Sul senso di autonomia relazionale nell’educazione…”

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