L’esempio di Nicholas Flamel: il valore del sacrificio

Ho già avuto modo di dire quanto ritenga appassionante la saga di Harry Potter dal punto di vista “educativo”: devo così dissentire dal giudizio negativo espresso dalla saggista tedesca Gabriele Kuby nel suo  “Harry Potter, Gut oder Boese?” (divenuto noto nel 2003 perchè inviato al Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede Cattolica, che decise di segnalare la serie narrativa come “pedagogicamente fuorviante”).
Non ho la necessaria competenza per esprimere il mio disappunto critico a quanto il volumetto propone, tuttavia devo notare che, a differenza di ciò che la Kuby sostiene, nel rapporto tra il valore del Bene e la presenza del Male nella vita dell’Uomo il romanzo non ammette semplificazioni e non ne banalizza i processi.

Anzi! Ciò che domina nell’intera saga è l’idea del “sacrificio”, di un sacrificio responsabile, capace di accogliere le istanze del Sé, senza attribuire un’assoluta primazia sul Bene del solo individuo.

Dire che nella saga si snoda l’eterna lotta tra il Bene e il Male è polarizzarne e appiattirne il contenuto, poichè emerge con chiarezza una commistione stretta tra le parti che compongono ogni persona, intrisce di negatività e di positività, di sentimenti di odio e di amore, di elementi deficitari ed eccellenze in ogni individuo.
Il mago non fa eccezione: anzi, qui più che nel babbano si evidenzia la responsabilità che deriva dal “poter fare”.
“Da un grande potere derivano grandi responsabilità”
dice Ben Parker al nipote Spider-Man, ma anche da un poter fare più limitato si evidenziano responsabilità personali.
Le contrapposizioni e gli opposti convivono e si mescolano “inquinando” la “sostanza” dell’Uomo e più in generale l’intera “umanità”… così è per il “super” mondo magico in cui i personaggi sono mediocri, come nella quotidianità delle persone normali, nella mescolanza di “miserie” e di “virtù”, di “debolezze” e di “forze”, di “errori” ma anche di “riscatto personale”.

Che funzione ha dunque la magia, se non crea differenza morale nell’essere babbano piuttosto che mago?

Il ruolo della “magia” inizia a delinearsi già dal primo capitolo della serie (“Harry Potter e la pietra filosofale”): è condizione “particolare ed eccezionale” con eziologia incerta (maghi si nasce e si nasce tali anche da “non maghi”, oppure non si è maghi pur avendo un albero genealogico magico).
L’ “essere magico” (e si noti che uno è mago e non lo diventa!) è quindi anzitutto uno “stato” , di cui non si ha possibilità di scelta personale e che causa separazione dal mondo “normale”: più che privilegi, da questa condizione deriva responsabilità ed una responsabilità che il soggetto si trova attribuita al di là della propria volontà.
Lo chiameremmo un dono o, evangelicamente, un talento, da mettere “a frutto”.
La “magia” è quindi condizione e consapevolezza particolare dell’ “essere”, anche se si presenta come elemento neutro, che si può piegare ad un utilizzo buono o cattivo secondo l’intenzionalità di colui che opera l’incantesimo.

L’incantesimo (il salmodiare o cantare formule magiche) opera sull’aspetto volitivo del mago, che ha quindi la responsabilità oggettiva dell’atto magico che compie.
“Buono o cattivo?” ci interpella la Kuby: il tutto sta nella disposizione di volontà e nell’impegno personale a correggersi nell’errore, ad evitare tentazioni di cedere all’imperdonabile, al fuggire la scelta deliberata di adesione al Male.
Sia chiaro: non parlo di errore di valutazione, di abbaglio, del fare male mossi da buone intenzioni o da amore, ma di percorrere deliberatamente la via del Male, con piena consapevolezza e deliberato consenso.
Conta la scelta, lo schierarsi, perchè “Nemo potest duobus dominis servire”!
Nell’intera saga questo sarà molto più chiaro.
Il mondo cattolico li direbbe “peccati mortali”: nei sette romanzi assumono la dimensione di tre maledizioni senza perdono e di un incantesimo oscuro e indicibile di lacerazione.

La prima è la maledizione Imperius. Con questa si obbliga l’altro a soggiacere alla propria volontà, l’azione dell’altro è sotto il diretto controllo di chi lancia la maledizione, ma gli effetti sono legati a chi ne è soggiogato (che ne è autore materiale inconsapevole). Questa provoca una lacerazione sul piano della responsabilità individuale del comportamento, separando la persona, dividendola cioè nella sua capacità di comportarsi in modo congruo e coerente con se stesso. Per questo è “maledizione”: sottrae infatti la capacità di rispondere di se stessi e fa allontanare dal proprio spirito.

La seconda è la maledizione Cruciatus. E’ un incantesimo di tortura, che piega la volontà attraverso il dolore fino alla pazzia (così è per i coniugi Paciok, che saranno torturati fino a perdere la ragione): è lacerazione morale, che (sotto la spinta del dolore) spinge ad un comportamento sbagliato, se non si riesce a “resistere” e a non cedere al compromesso. Chi resiste potrà perdere la ragione, ma salverà i propri valori che sopravviveranno nella forza dell’esempio dato fino allo sfinimento di sè.

La terza è l’ anatema che uccide (AVADA KHEDAVRA). Questo separa lo spirito dalla vita: è un omicidio, che “uccide” la relazione affettiva e fisica tra l’individuo e gli altri. Qui si ha la lacerazione della vita.

L’Incanto Horcrux è l’atto più potente di magia nera:  lacera l’ ”anima”, divide e distrugge l’integrità della persona…la interrompe, separandola da se stessa, togliendole l’armonia di una vita che “tiene insieme” la persona. Qui si “uccide” la relazione con se stesso, e per farlo si deve passare per il far morire la relazione con ogni altro. Qui il sacrificio dell’altro è per il desiderio d’immortalità e potere illimitato: determina “separatezza” definitiva dal sè in un’anima che si frammenta e si rinchiude su parti di sè (ma a pezzi) in Horcrux.

Cosa può ricomporre invece la frattura? Ridonare l’armonia al tutto insieme?
L’idea centrale è nel sacrificio, ma nel sacrificio di sè, non in quello dell’altro (che è invece  filosofia d’azione di Lord Voldemort).
Mi sento di evidenziare una simiglianza (e non me ne vogliano i cristiani se mescolo il teologico con il genere fantasy, intendendo che questo imita, e malamente, quello), osservando che vi è lo stesso intento educativo di esempio che interpella profondamente ognuno nel sacrificio di Cristo per ricomporre la “frattura” dell’Uomo con Dio.
La saga di Potter presenta il  medesimo messaggio (forse la Katy non se ne è accorta!):

Il sacrificio personale è elemento che dona senso alla vita.

Così è per ogni genitore che si offre alla crescita del figlio, spesso rinunciando  ad inseguire i propri desideri per mettere al centro altri bisogni; così è per l’educatore che mette in gioco le proprie contraddizioni per offrire una umanità che sostiene il divenire adulti; così è per l’insegnante che offre la base di un sapere sopra il quale ognuno costruirà percorsi diversi e non sempre lineari. Tutto perchè l’ALTRO è un valore. A prescindere.

La saga ci offre già nel primo semplice romanzo un indizio importante della ricerca attorno alle cose di maggior valore. Questo inizia con il sacrificio della vita dei genitori di Harry Potter, morti per difendere il loro piccolo dalla furia omicida del Signore Oscuro Lord Voldemort, e termina con il sacrificio della vita dei coniugi Flamel che rinunciano alla Pietra filosofale, fonte della loro salute e della vita eterna.
Rimando a qui per un breve riassunto del primo libro, necessario a capire i personaggi e di cui do per noto l’intero evolversi della trama.

La pietra filosofale è nel testo un elemento misterioso e occulto, necessario ingrediente per l’Elisir di lunga vita, capace di donare l’immortalità a chi ne beva con regolarità, di ripristinare la consistenza primigenia alle sostanze che si corrompono (da cui il trasformare il metallo vile nel preziosissimo oro) e di permettere la conoscenza del “Bene” e del “Male”.
Il parallelo con il frutto dell’Albero della Conoscenza dell’Eden è evidente: il termine “filosofale” si riferisce proprio alla ricerca della sapienza che porta la ragione a discernere, a spiegare per capire e difendere il “valore” (così come per Socrate, che accetta la morte per non danneggiare gli Ateniesi perchè il rispetto della Legge non sia subordinato al suo interesse particolare – cfr. Critone, Platone).
La “sofia” è ricerca ed essenza del vivere, opera sicuramente destinata a non avere compimento (se l’oracolo di Delfi può dichiarare che “il miglior sapiente è colui che sa di non sapere”), ma viaggio necessario perchè ognuno possa scoprirsi e realizzarsi compiutamente nella consapevolezza di sè e nel “guadagno” morale. Non è questione di umiltà l’ammettere la “finitezza” dell’Uomo, ma approccio di vita che riconosce il valore personale come incomprimibile (perchè è ciò che dà senso alla ricerca) e il valore dell’altro come propria responsabilità personale (perchè il compito socratico della maieutica è nell’aiutare l’altro a “tirare fuori” quello che ha dentro, assumendosene la responsabilità di un cammino che va avviato e sostenuto).
E’ il contrario del motto littorio “me ne frego!”. É nel “mi interesso!” che si può passare dall’im-personale al personale.
Non divisione, ma analisi e sintesi, mettere insieme, appartenere facendo “composizione di individualità e alterità”.

Contro le maledizioni senza perdono resta quindi il solo perdono, come capacità di accettare la “finitezza e la miseria” dell’altro, base per ripartire e costruire (anche faticosamente) ma insieme (“io e te”), senza permettere che la divisione cresca a dismisura e offuschi la possibilità di vivere con e per l’ALTRO.

L’Horcrux è il dia-ballo (cioè quello che si mette di traverso, che interrompe e divide), radice di “diabolico” che pensa e si comporta da “separato” non solo verso il mondo (dove sta appunto l’ALTRO), ma anche nel suo interno (con se stesso): sacrifica l’ALTRO per preservare SÉ …e così “perde se stesso”.
Il sym-ballo sta nel giusto opposto: perdere se stessi a favore dell’altro è ciò che “lega, mette insieme, unisce”. Creare relazione, costruire ponti, mettersi in ascolto dell’altro…preoccuparsi.

Harry Potter inizia la sua avventura incontrando e facendo relazione autentica e solida con Hermione e Ron, che resisteranno nei momenti in cui tutto precipiterà, anche quando gli altri amici rinnegheranno di esserlo mai stati. I tre si preoccupano dell’intera comunità magica e nel tenere unita e difendere la scuola stessa (così dice il Cappello Parlante quando ricorda che l’unità nella diversità è la vera forza delle 4 Case). Minacciati da “qualcuno” che cerca di rubare (separare) “qualcosa”, gli amici si esporranno al pericolo pur di difendere ciò a cui credono e cementeranno la loro unione attraversando avventure fantastiche a protezione della Pietra filosofale.
La Pietra è anzitutto un “simbolo”, qualcosa attorno al quale si condensano relazioni, amicizie, “aiuto offerto e ricevuto”.
Questa è opera materiale dell’alchimista Flamel, che con la moglie ne gode attraverso la produzione di un elisir che assicura loro salute e lunga vita, ma è opera spirituale di un’intera comunità che la preserva (togliendola dalla Gringott, la banca dei folletti, che l’ha in deposito, per renderla un’idea viva da proteggere e di cui preoccuparsi in modo condiviso come responsabilità comune, custodita nei sotteranei della Scuola di Stregoneria, dove ogni insegnante è impegnato nella sua protezione).
Proprio questo fa dire che la scuola di Hogwarts “è il posto più sicuro dove preservare la pietra”.
Lord Voldemort la brama per recuperare la sua forza malefica e tornare a dominare il mondo. Il rischio è altissimo e solo per un soffio il malvagio non riuscirà nell’intento.
Ad avventura terminata resta però il problema di cosa fare di un oggetto magico così potente e pericoloso.
Flamel, legittimo proprietario decide di eliminarla per evitare il rischio di un uso sbagliato, pur condannando se stesso e la moglie a morte: la distruzione sarà quindi sul piano materiale, ma sul piano simbolico resterà l’esperienza di aggregazione, difesa comune, unità e valore che l’intera comunità magica acquisirà.

Il sacrificio personale di Nicholas Flamel permetterà il bene degli ALTRI e la vittoria sarà assicurata anche nella perdita della pietra: perchè il Bene dell’Altro è un valore che sempre vale il sacrificio…dono maggiore non c’è!

(Dedicato a quelle donne e a quegli uomini “babbani” che, senza l’aiuto della “magia”, hanno impegnato la loro vita perchè noi potessimo essere qui).

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