Cose facili, cose difficili…

Trovare soluzioni a problemi altrui.
Questo è il lavoro degli operatori sociali!
C’è gente che studia anni per perfezionare le proprie abilità diagnostiche e terapeutiche, presa dal “sacro” compito del trovare problemi (e quindi soluzioni)…agli altri.
Operatori sociali, ognuno con la propria specializzazione.
Chi quella fisica (del medico, del terapista riabilitativo, del nutrizionista…); chi quella spirituale (dell’educatore, dell’insegnante, del sacerdote….).
Non me ne vogliano le categorie ibride o quelle che, prudentemente, non ho citato per non venir tacciato di essere indiretto sostenitore di quanti (e son tanti!) che esperti dell’interpretare la disperata umanità di ognuno, si ammantano di doti “divine” o “magiche” per alleggerire malesseri spirituali (e relativi conti bancari) di poveri “creduli”, che a questi si affidano.
La solita “reprimenda” verso i pericoli di maghi, fattucchiere o assistenti della “sfiga” che dir si voglia, si sarebbe autorizzati a pensare da questo incipit narrativo.

Spero di non venir abbandonato già a questo punto: non è mia intenzione parlare di ciarlatani o di sedicenti maghi!

Ebbene no! Scrivo per far anzitutto ammenda personale (ma pure per sfatare il mito che la mia professione abbia lo scopo di trovar soluzioni a problemi).
L’occasione è rappresentata dall’ennesima “gaffe”: mia, ovviamente.
Succede così.
Nel tentativo di risolvere un problema futuro possibile per il gruppo di lavoro, ne ho creato uno presente e certo ad una collega. Di ciò mi dolgo, ma troppo tardi per poter “tornare indietro”. La curiosità del lettore dovrebbe venir saziata dal racconto dell’episodio: si capirebbe meglio il “quid” della questione. Ma troppo me ne vergogno e non desidero creare neppure ulteriore imbarazzo a quello che ho già generosamente sparso.

Poco importa conoscere gli eventi ai fini del ragionamento che segue. Di più m’importa affidare le mie “scuse” allo scritto presente (chiaramente di anticipo di quelle doverose che vanno fatte di persona guardandosi negli occhi).
Giungeranno seppure tardive, ma giungeranno…

Ritorno all’inizio: “Trovare soluzioni a problemi altrui è il lavoro degli operatori sociali”.

L’esperienza odierna mi fa riflettere su questa cosa, che ora mi pare un’affermazione poco convincente.
La ricerca delle soluzioni ai problemi altrui, quando ci si fa prendere la mano dall’ “entusiasmo” professionale, rischia di vedere problemi che giustificano soluzioni che abbiamo già in mente. Nessuno di noi è immune da ciò, perché l’interpretazione degli avvenimenti dipende dalla “luce” con la quale illuminiamo gli eventi e le persone che ci circondano.
“Luce” che, lungi dall’essere diffusa e penetrante come quella del giorno, più assomiglia ad una torcia elettrica che insiste su un campo visivo assai limitato.
Così ne soffre l’intera visione, che si fa parziale e oscurata proprio nel mettere a fuoco i particolari.
Lo “sguardo”, seppur preciso, si fa, quindi, selettivo.
Parlo della mera esperienza “estetica” della bellezza nel ragionare per cause e conseguenze, o di quella “etica” della giustificazione delle intenzioni, o ancora di quella “energetica” della motivazione. Sullo sfondo, la capacità di cogliere la pluralità degli elementi che giustificano e assemblano gli atteggiamenti e i comportamenti delle persone.
Lo “sguardo” che si posa dunque sull’altro selettivamente illuminato, offre una categoria interpretativa capace di portare alla diagnosi del “problema”…segue “soluzione”.

E qui sta l’errore!
Perché parlando della “mia soluzione” per il “suo problema”, dico all’Altro che condivido e sono disponibile all’aiuto…a tutto l’aiuto che posso per il problema che ho visto con la “mia” soluzione.
Eppure, constato esattamente l’opposto: cioè che i problemi si vedono meglio da più punti di vista e le soluzioni valide si trovano sempre considerando che chi la dovrà applicare saprà esserne regista. Come a dire che la soluzione collaborativa è la migliore terapia perché rispetta “dosi e tempi” di chi la deve assumere.

Esattamente il contrario di quanto oggi ho proposto alla collega.
Ma è così che si impara a ridurre gli errori: facendoli e ragionandoci sopra.

Imparo quindi ad usare una “prudenza” che non si fa immobilismo, ma capace di considerare meglio il percorso dell’altro e non solo la soluzione del problema. E’ una cosa che noi educatori dell’area “speciale” stiamo dimenticando. Abbiamo ormai un campionario fitto di risposte a esigenze e questioni di diverso tipo, così tanto disponibili e così “testate” da non farci più investire tempo nel ragionamento sul senso del produrre orientamento, ma sul desiderio di trovare subito soluzioni.

Lavoriamo per risolvere i problemi degli altri (in particolar modo di chi difetta di cognizione e intelligenza), senza tener presente che ognuno, “normale” o meno nella dotazione personale intellettiva, ha dietro di sé un percorso che non può essere dimenticato (lo facciamo perché statisticamente è più facile armonizzare la diversità nelle più rassicuranti categorie del noto).

Mi viene in mente quella storiella in cui il marito ubriaco che ha perso le chiavi di casa si ostina a cercarle sotto il lampione dell’ingresso. La moglie, che destata dal trambusto lo soccorre aprendogli l’uscio, chiede che cosa stia facendo. L’uomo le risponde sgarbatamente che sta cercando le chiavi di casa e le intima di dargli una mano. La signora chiede quindi dove crede di averle perdute. Questi risponde che ovviamente le ha perse per strada, mentre tornava dal bar. Allora la donna lo incalza chiedendogli perché mai le stia cercando sotto il lampione di casa. Lui risponde: “perché qui c’è la luce!”.

… per trovare le chiavi non si può prescindere dal ripercorrere la strada che è stata fatta.

Con metodo.

Senza fretta.

Ponendo lo “sguardo” sul percorso fatto.

Anche se sono “cose difficili”.

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