Case analysis 1 – elementi documentali e anamnestici

Nel lavoro educativo non deve essere trascurata l’importanza della storia personale del soggetto: il valore esperienziale che questa rappresenta per l’individuo è fondamentale.
Nell’analisi di caso è quindi necessario poter accedere ai dati che puntualizzano il percorso di vita, per permettere all’operatore sociale di meglio interpretare le azioni e i pensieri del cliente. La ricostruzione della storia personale del soggetto è quindi il punto di partenza di un’analisi che abbia lo scopo di analizzare il passato, orientare l’interpretazione del presente, avere un pensiero prognostico.
Occorre però fare una distinzione tra l
‘elemento storico e quello anamnestico.
Entrambi sono importanti per capire i comportamenti osservati e per rispondere in modo adeguato ai bisogni.
La “storia” è rappresentata dalla produzione documentale che accompagna il soggetto al divenire “cliente” della nostra azione socio-psico-educativa: sostanziata dalla produzione documentale dei vari servizi, che a titolo diverso sono intervenuti nella sua biografia, questa dovrebbe essere in grado di descrivere gli elementi
oggettivi riscontrati e caratterizzanti la vita del soggetto. Sono rappresentati da quei momenti rilevanti di “passaggio” o “critici”, quali le richieste di intervento ai servizi sociali o di tutela, le valutazioni diagnostiche (tests psicometrici, diagnosi di patologie), i ricoveri ospedalieri, gli interventi di sostegno familiare o di protezione abitativa, i provvedimenti giuridici (decreti di allontanamento dalla famiglia di origine, sentenze di carcerazione, denunce, ecc.). La “storia” è  ciò che si può “documentare” della vita di una persona.

L’ “anamnesi” (ἀνάμνησις) è il processo di reminiscenza per cui un soggetto ricorda i momenti salienti della propria esistenza, dove vi riconosce una particolare importanza descrittiva e caratterizzante del Sé e la spiegazione della continuità della propria esperienza di vita. La memoria non solo può selezionare, ma anche ri-adattare, l’esperienza vissuta, modificandone il senso e la punteggiatura. La “trasformazione” della realtà (quantunque possa essere anche inconsapevole) si può porre sul piano di una percezione alterata, a favore della tutela del Sé da ricordi dolorosi o troppo minaccianti. Ci si sposta su un piano soggettivo, che è ulteriormente diagnostico per l’operatore sociale, poiché è particolarmente utile per fornire indizi sulle “rimozioni” o sugli “adattamenti” che la mente del soggetto opera, oltre a dare indicazioni su come la persona vive e ha vissuto i momenti che ricorda più significativi della sua vita.

Va evidenziato che non esiste una “verità” assoluta dei fatti, sia perché (come abbiamo visto) la ricostruzione soggettiva è inficiata dalla selettività del ricordo e dall’attribuzione personale di un valore (o dis-valore) ai fatti, sia perché nulla garantisce che il rapporto oggettivo di un terzo non possa essere manipolato o mutilato per ragioni sconosciute.
L’elemento “storico” è sostenuto da documenti, il cui scritto (come ci ricorda Platone) non si può difendere da solo da errate interpretazioni o da attribuzioni indebite di significato, soprattutto terminologico, che possono confondere il quadro d’insieme; ancora, la redazione potrebbe  essere stata accomodata, omissiva, esagerata o riduttiva per fini istituzionali: non possiamo infatti escludere ragioni di “orientamento” delle descrizioni di Assistenti sociali o psicologi per spingere verso l’ottenimento di un riconoscimento economico di assistenza o di un’attribuzione diagnostica orientata al psichiatrico piuttosto che al deficitario (ad esempio). Infine, i dati raccolti e utilizzati per le redazioni dei documenti possono essere letti come dati autenticamente certificati, mentre sono in genere mutuati da ricordi del soggetto o del suo “entourage”.

Visto così, è lecito il dubbio che la ricostruzione soggettiva e quella oggettiva siano elementi inutilizzabili per la ricerca della “verità” certa della storia del soggetto.
Per il lavoro educativo ha più senso intuire una “verità” probabile, più che conoscere con certezza. Ciò per svariati motivi.
Un primo è che riveste maggiore rilevanza per il soggetto ciò che egli ha percepito e vissuto, piuttosto di ciò che è realmente accaduto (poiché la conoscenza è un atto dinamico in cui la memoria “scova e fruga” in elementi che talvolta vengono ignorati e talaltra enfatizzati), ma l’importanza è data dal senso che viene attribuito all’esperienza che si “crede” di aver fatto. Questo significa che il “vero” è soggettivo e percepito come “reale”.
Un altro è che non c’è nulla di “determinante“, anche se tutto può essere “predisponente“. Se quindi l’educatore è impegnato a interpretare e anticipare il possibile, la realtà “vera” non è certo più predittrice di quella “probabile” (che come tale non potrà neppure essere “sbagliata o falsa”).
Nella teoria dell’attivazione, la realtà é l’esito di un processo di attivazione, mediante il quale l’individuo dà un senso e un significato agli elementi che lo circondano e li riordina costruendo specifiche mappe cognitive. Nella versione più radicale di questa teoria, i “fatti” non esistono: esistono solo interpretazioni, attivazioni e costruzione sociale (Eco sostiene però che se non ci fossero i fatti non ci sarebbe nessun criterio possibile per negoziare le interpretazioni). Qui attori diversi attivano diversamente lo stesso ambiente (selezionando informazioni diverse, costruiscono diversamente la realtà) e mettono quindi in atto strategie e spiegazioni diverse. Appare chiaro il condizionamento sociale della percezione: la costruzione sociale della realtà, l’attivazione dell’ambiente, dipendono dalla cultura a cui quell’individuo appartiene. Ferrante sostiene che la cultura sia una “gabbia cognitiva”. Per questo motivo possiamo sostenere che il “vero” è tale solo per chi “condivide” quella particolare attivazione.
Potremmo aggiungere motivi ulteriori, ma questi mi paiono sufficientemente convincenti.

La sintesi degli elementi cruciali di vita (sia oggettivi che soggettivi) diventa contributo di una “mappa” in cui si iniziano ad evidenziare le problematicità e i punti di forza, le connessioni e quelle che possono essere ritenute ragionevoli casualità. In questo modo dovrebbe essere possibile tracciare sinotticamente i capitoli di una storia del soggetto e quindi ragionarvi, con l’intento di trovare ricorrenze di letture possibili che l’individuo ha su di sè e sugli altri, di vissuti (ad esempio di abbandono), di comportamenti (violenti o di sottomissione), di pensieri, ecc..

L’osservazione del comportamento e l’evidenziazione degli atteggiamenti del soggetto sono un compito cruciale dell’operatore, impegnato a fare emergere gli elementi essenziali per il case analysis e per la costruzione di una teoria interpretativa ingenua, capace di guidare nell’azione di sostegno psicologico ed educativo.
Dobbiamo però definire la teoria come “ingenua”, perché non si può sostanziare di dati “scientificamente” comprovati dalla sperimentazione ma da elementi che provengono da un’esperienza diretta dell’operatore.

La “teoria interpretativa ingenua” si contrappone ad una “teoria esperta” per la sostanziale non-controllabilità certa della stessa: si tratta di una sorta di theory like come un insieme di cognizioni tra loro connesse in modo coerente, che non può essere considerato come frammentario ma che si presenta come una struttura concettuale ramificata e complessa, capace di spiegare e di dare una “visione” o “spiegazione” del funzionamento del soggetto.

Questa teoria rappresenta un importante strumento di lavoro: vengono facilitate le spiegazioni di ciò che succede e suggerito un approccio facilitante per la relazione educativa. Ciò che ne può emergere è una sorta di abstract, senza alcuna pretesa di esaustività nell’illuminare dinamiche, comportamenti e assetti funzionali-identitari del soggetto. Questo è un utile documento riassuntivo da tenere a disposizione nella cartella personale del soggetto e da integrare al progetto educativo personalizzato.

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